Al Pacino: il solo suono di questo nome ha sempre suscitato in me attenzione, curiosità, quasi riverenza; forse semplicemente una personale percezione distorta.
Al Pacino a Venezia è arrivato per presentare due film: The Humbling, di Barry Levinson, tratto dal romanzo di Philip Roth, dove recita la parte di un attore in crisi, che riesce però a dare una scossa alla sua vita attraverso una movimentata relazione sentimentale, e Manglehorn di David Gordon Green dove interpreta un fabbro che si lascia macerare da rimpianti e frustrazioni all’ombra di una vita insoddisfacente. È il carisma, forse, una delle qualità più evidenti di questo attore che, proprio al Lido, ha dichiarato di avere ancora entusiasmo per il suo lavoro; il carisma, per un attore, a volte rappresenta una qualità pari a quella del saper recitare.
Al Pacino quindi a Venezia 71 ha presentato due film, The Humbling fuori concorso e Manglehorn in concorso. Produzioni e budget completamente dissimili. L’attore interpreta perciò due personaggi diversi, in due storie completamente differenti, con due vite assolutamente antitetiche. Hanno però, entrambi i film, qualcosa che li accomuna, ed è quello che potrebbe forse definirsi come la voglia di ridare slancio, in un modo o nell’altro, alla propria vita, ad un’esistenza che spesso disorienta e confonde. Questo, Al Pacino, sicuramente riesce a trasmetterlo bene: è un attore che la gavetta prima di farla nella professione l’ha fatta nella vita, fin da quando si azzuffava nel Bronx o vendeva il suo corpo nella Sicilia di perduta origine. E forse questo sicuramente è un valore aggiunto da prendere in considerazione per una persona che vuole fare del recitare una professione: se si assapora la vita in ogni angolo recluso, se si morde ogni aspetto del quotidiano, magari si riesce a metabolizzare e a rendere propri, diversi punti di vista, differenti opinioni, “inquadrature” per certi versi improponibili: quale miglior cibo per chi si appresta ad immedesimarsi in personalità e contesti per certi versi estranei?! E poi c’è l’avanzare dell’età, comune ai due personaggi, sottofondo morbido su quale adagiare sequenza dopo sequenza speculazioni e riflessioni pilotate; bilanci che inesorabilmente, ad un certo punto, cominciano ad impadronirsi quasi ossessivamente dei pensieri, che tu sia un attore in crisi o un fabbro depresso calato in una grigia esistenza. E ben vengano certe riflessioni: se ne avvertirà sempre il bisogno, che si tratti di cinema o altro.
Perché anche in un universo dove tutto sembra finzione, amare conclusioni esistenziali possono rappresentare l’insidia di solitudini insospettabili, mal celate o addirittura ricercate. Ce l’hanno consegnato le cronache di episodi non troppo addietro dei mesi scorsi, proprio nel dietro le quinte del grande schermo: la vita, certe volte, bisogna sfotterla, prima che sia lei a prendere il sopravvento nel prendersi gioco dei propri stati d’animo. E allora benvenuto Al Pacino, anche se il tuo recitare a detta di alcuni è diventato troppo soffuso, didascalico, “tecnico”; benvenuta sia la tua esperienza, prima che la tua bravura. Benvenuta sia la tua arte di insegnare, di trasmettere e di recitare la più grande delle finzioni: la vita stessa, spesso soffocata da desideri finti più del recitare su qualsiasi palcoscenico.