Era ovvio che La ragazza del treno diventasse un film, visto il planetario successo del romanzo omonimo di Paula Hawkins da cui è tratto, un thriller psicologico da 15 milioni di copie vendute in tutto il mondo che ruota integralmente intorno all’universo femminile.
La ragazza del treno è Rachel (Emily Blunt), diventata alcolizzata dopo che il marito Tom (Justin Theroux) l’ha tradita e abbandonata per un’altra donna, Anna (Rebecca Ferguson), con cui ha anche avuto quel bambino tanto desiderato da Rachel e mai arrivato. La donna passa le sue giornate prendendo un treno che transita nella ricca zona residenziale dell’Hudson Valley (il film sposta l’azione da Londra a New York), da cui osserva insistentemente quella che ai suoi occhi è la coppia perfetta, formata dalla bellissima Megan (Haley Bennett) e dal suo compagno dall’aria virile Scott (Luke Evans). Ma c’è un’altra villa nei paraggi che attrae morbosamente la sua attenzione: quella in cui vivono Tom e Anna.
La ragazza del treno parte come uno scavo psicologico dentro le ossessioni e le fantasticherie d’una donna la cui vita è andata in frantumi. Poi il racconto s’intorbida, entrando nelle vite ideali delle due coppie da copertina, che così perfette non sono: Megan è insofferente del marito che pare violento, va da uno psicanalista (Édgar Ramírez) che pare essere il suo amante, fa la babysitter a casa di Tom e Anna, la quale pure pare insicura e insoddisfatta. A un certo punto Megan scompare: forse è morta, forse Rachel, che non s’è limitata a fare da spettatrice ma è entrata nelle vite degli altri, ne sa qualcosa. Ma la sua memoria di alcolizzata è labile: così la soluzione del caso passa necessariamente attraverso l’immersione di Rachel nei propri ricordi annebbiati, per distinguere ciò che è davvero accaduto da quanto è solo frutto della sua immaginazione distorta.
Voyerismo, abbandono, sensi di colpa, maternità negata, violenza fisica e psicologica: La ragazza del treno è un meccanismo confezionato per far scattare l’immedesimazione d’un pubblico soprattutto femminile, di cui indaga certe ansie sposandone integralmente il punto di vista. Nel racconto gli uomini rivestono un ruolo accessorio, sagome bidimensionali prive di tratti definiti, puri elementi funzionali d’una storia che diventa via via più inverosimile.
Ma tutto La ragazza del treno, diretto con mano impersonale da Tate Taylor, è improbabile. Il racconto vorrebbe ruotare intorno a varie forme di dolore, ma la sofferenza è ricomposta in immagini patinate, con ralenti estetizzanti e protagonisti troppo belli e monocordi (Megan sempre sexy, lo psicanalista ganzo ma dall’aria pensosa, Scott testosteronico manzo parecchio tonto). Per dare voce ai diversi personaggi femminili, la trama si rifugia in un canonico montaggio a incastri temporali e, nei continui andirivieni tra presente e passato, diventa confusa e imperscrutabile. Fino alla conclusione sopra le righe che, nella sua ansia di sorprendere e distribuire colpe tra manipolatori e manipolati, toglie qualunque plausibilità alla vicenda. E valgono a poco gli sforzi d’una Emily Blunt macilenta e tormentata.
https://youtu.be/E6e2bL-zDwo