“John Dillinger non andrebbe mai a vedere un film di Shirley Temple”. Certo non si decide di fare un film solo per il gusto di poterci piazzare dentro una battuta memorabile o perché ispirati da un unico, clamoroso dettaglio della biografia del protagonista. Però è difficile pensare che Michael Mann, quando ha scelto di raccontare la storia vera del più famigerato criminale dell’era della Grande depressione in Nemico Pubblico (Public Enemies, 2009), non sia stato affascinato dalla sua morte proverbiale, incredibilmente cinematografica.
L’uomo più ricercato d’America, infatti – non è uno spoiler, è storia –, fu ucciso dagli agenti dell’Fbi guidati da Melvin Purvis (Christian Bale nel film) nel 1934, in un’imboscata all’uscita dal Biograph Theatre di Chicago, dove aveva appena visto Le Due Strade (Manhattan Melodrama, 1934), un gangster movie di W.S. Van Dyke con Clark Gable, che aveva ovviamente preferito alla dolciastra commedia infantile con la bimba dai riccioli d’oro.
Questo evento singolare – nel quale, come sempre, la realtà supera la fantasia – spinge inevitabilmente a leggere in chiave metacinematografica il film di Mann, un regista che pure, col suo stile laconico, non ha mai strizzato l’occhio alla cinefilia. E che però, nel suo cinema sempre in bilico tra precisione realistica (anche in questo biopic, rispettoso della verità storica, partendo dal libro di Bryan Burrough, Public Enemies) e trasfigurazione stilistica, ha perennemente, seppure implicitamente, riflettuto sulla forma cinematografica, che ha modellato sapientemente a partire da un uso antinaturalistico ed espressivo del colore (qui la fotografia, in digitale e alta definizione, è di Dante Spinotti).
Proprio Spinotti, intervistato, dichiarò che con Mann parlarono a lungo della grana visiva da dare al film: “Volevamo che Nemico Pubblico avesse un aspetto con un alto grado di realismo, che non desse quella sensazione di film d’epoca”. Infatti non c’è nessuna patina antichizzante, nessuno smorfioso viraggio seppia con tentazioni nostalgiche. Al contrario, sebbene naturalmente scenografie e costumi rimarchino l’ambientazione anni Trenta, lo stile è moderno, una mescolanza di piani ravvicinati ripresi a mano e campi lunghi che restituisce la sensazione di una cronaca in presa diretta, in cui lo iato temporale tra ieri e oggi sfuma. È un passato restituito con un fortissimo senso di attualità, come stesse accadendo qui e ora.
Il film di Michael Mann comunque, e lo si capisce più chiaramente proprio dal finale, ruota intorno al fatto che Dillinger (un ottimo Johnny Depp) non è semplicemente il pericolo pubblico numero uno quanto una figura pubblica, la cui immagine è continuamente filtrata, modellata e amplificata dal racconto che ne fanno i mass media. E lui mostra consapevolezza della cosa, sin dall’inizio, quando dichiara di preferire le rapine in banca ai rapimenti perché, dice, “al pubblico non piacciono i rapimenti, e noi dobbiamo tenere conto di quello che pensa la gente”.
Cinematografica è anche la sua storia d’amore con Billie Frechette (Marion Cotillard), che lui strappa a un’esistenza anonima trascinandola nella febbrile e perennemente pericolosa avventura accanto a un fuggiasco. Quando l’Fbi diretta da Edgar Hoover (Billy Crudup), orgogliosissimo dei nuovi modelli investigativi scientifici, comincerà a intercettare le telefonate della donna, Michael Mann ci mostra il foglio con la trascrizione di una loro conversazione. E sembra ovviamente la pagina di una sceneggiatura, di una storia d’amore autentica che, insomma, è vissuta come un film, già pronta per la trasposizione sullo schermo, senza bisogno di aggiustare una virgola.
Come in Heat, poi, Nemico Pubblico è una vicenda incentrata sullo scontro tra due personaggi, Dillinger e l’agente Purvis, votati alla loro “professione”, ossessionati dal lavoro ben fatto vissuto come una religione esclusiva. Di entrambi non conosciamo dettagli della vita privata, integralmente ripiegati sull’azione e sulla loro vita esteriore. Quando Billie chiede a Dillinger qualcosa della sua biografia, per capire che tipo d’uomo ha di fronte, lui snocciola pochissimi elementi: l’immancabile infanzia infelice e brutale, la passione per il baseball, le auto sportive e, guarda un po’, il cinema. Tutto qui: ma son cose secondarie. Ciò che conta per Dillinger, uomo incompiuto e sempre in trasformazione, è la promessa del futuro, quello che riuscirà a diventare nel suo incessante movimento. “L’unica cosa importante – dice a Billie – è la direzione in cui uno sta andando”.
Nemico Pubblico nel suo ritmo rapinoso, in un montaggio che non indugia sui tempi morti e stacca seccamente da una scena all’altra, da un’azione all’altra, riproduce esattamente la famelica voglia di vita del protagonista, che plasma la sua esistenza senza soste e senza freni, da una rapina a una fuga dal carcere, da un momento di seduzione a una sparatoria (e gli scontri a fuoco, come in Heat, sono sempre girati come atti di guerriglia, coi mitragliatori al posto delle pistole: il che dà alle sequenze quel senso drammatico, grave e altisonante tipico del cinema di Mann, nel quale in ogni momento ne va della vita e della morte).
Il Dillinger di Nemico Pubblico è un carattere in itinere, enigmatico – brutale ma anche con tratti di romanticismo e generosità –, alla perenne scoperta e definizione di sé. E le volte in cui si guarda riflesso sullo schermo nel buio di un cinema costituiscono momenti essenziali della sua presa di coscienza, per capire chi è e il ruolo che incarna agli occhi della società. Mentre sta parlando della prossima rapina con la sua banda, nella sala vanno le immagini di un cinegiornale che mostra la sua foto segnaletica, con la voce del commentatore che chiede alla gente di guardarsi sempre intorno, perché Dillinger potrebbe essere l’uomo accanto a loro. Il criminale per un attimo teme che gli spettatori lo riconoscano e cerca di nascondersi. Allo stesso tempo quell’istante gli offre la dimensione della sua centralità nell’immaginario collettivo e ne esalta il senso di onnipotenza – rimarcando l’ambiguità strutturale del gangster movie, che racconta in maniera “cinematografica” e quindi seducente personaggi moralmente repellenti.
E qui chiaramente si intrecciano due livelli che inevitabilmente si sovrappongono: ciò che Dillinger pensa di sé stesso e ciò che di lui pensa la società, la quale si costruisce un’opinione del “personaggio pubblico” (non dell’uomo) attraverso la narrazione mediatica. Che è una narrazione, come dicevamo, sempre pericolosamente mitologizzante. Un elemento problematico noto sin dagli albori del gangster movie, visto che in un seminale articolo addirittura del 1948, Il gangster come eroe tragico, Robert Warshow legava il successo del genere al desiderio di sovversione espresso dal personaggio criminale (“Il gangster parla per noi, dando voce a quella parte della psiche americana che rifiuta le qualità e le sfide della vita moderna, che rifiuta l’americanismo stesso”, scriveva Warshow).
In Nemico Pubblico la combinazione tra realismo e stilizzazione formale riflette questa dialettica tra immagine pubblica e privata, in cui si combinano ciò che Dillinger pensa di sé come uomo e quel mito criminale plasmato dai media e dal pubblico, che inevitabilmente finisce per influenzare la sua autopercezione. E infatti, quando lo arrestano, dall’auto in cui è ridotto in manette saluta compiaciuto la folla che, allo stesso tempo, lo disprezza e lo adora, per i brividi di proibito che fa loro vicariamente provare.
Il finale di Nemico Pubblico rende quasi didascalicamente chiaro questo discorso. Dillinger ha davanti ai suoi occhi ne Le Due Strade un Clark Gable criminale che gli somiglia – o è lui a somigliargli, con gli stessi sottili baffetti del gran divo della Hollywood classica – e che esprime concetti che gli appartengono. “Muori nel modo in cui hai vissuto, tutto d’un botto. Questo bisogna fare, senza tirarla per le lunghe”: questa è la filosofia di Gable, destinato a morire sulla sedia elettrica. Parole che Dillinger sottoscriverebbe, in linea con quel che pensa di sé o crede di pensare, intossicato dal racconto a tutto volume che di lui offrono media e opinione pubblica.
Sullo schermo Dillinger vede srotolarsi qualcosa che assomiglia alla sua vita, o meglio al mito cinematograficamente riadattato della sua vita. Attraverso quei fotogrammi rivive anche, in forme romanticamente esemplari, la sua storia con Billie, che assomiglia smaccatamente alla Myrna Loy che ama Gable ne Le due strade. È come se in quel momento tutte le rappresentazioni collimassero, e finalmente Dillinger acquisisse una piena consapevolezza di sé, avendo a fuoco un’immagine netta e distinta di chi è davvero, l’uomo privato e il mito pubblico insieme. La sua inquietudine, che s’è espressa in un demone dell’azione che l’ha portato senza sosta a rapinare, uccidere, amare, fuggire trova una risposta. E a quel punto, quando tutto è compiuto, inevitabilmente muore.