È morto Valerio Evangelisti. Avrebbe compiuto settant’anni a giugno, e già questa è una cosa che sorprende, atemporale come appariva col suo essere al tempo stesso antico, sarà che uno tendeva a appiccicare la sua faccia all’inquisitore Eimerich, che lo ha reso giustamente celebre nel mondo come autore di fantascienza, etichetta che gli stava decisamente strettissima, ma al tempo stesso giovanile, col suo look vagamente metallaro, il suo costantemente vestire di nero, un’aria vagamente british che veniva però tradita da un accento decisamente emiliano. Una specie di Alan Moore coi capelli più corti, ma altrettanto visionario e intriso di senso politico, non c’era sua pagina che trasudasse consapevolezza sociale, non ostentasse radicalità, non inchiodasse le brutture del contemporaneo, si legga in questo anche buona parte del Novecento, al muro.
È morto Valerio Evangelisti, e da tempo, da tanto tempo, si sapeva stesse male.
In genere, anche citare adesso Zerocalcare e la sua famosa striscia su quando muore qualcuno di famoso è diventata parte di questo cliché, quando muore qualcuno di famoso ci si lascia andare a lamenti luttuosi, anche se non lo si conosceva, o se, soprattutto, lui non conosceva noi. E lo si fa spostando con la stessa credibilità narrativa con cui a un certo punto di Lost, incapace di mettere una pezza a una trama sfilacciatasi strada facendo e ormai irrecuperabile, JJ Abrams fa spostare l’asse della Terra con il semplice seppur faticoso atto di mettere le mani su un timone, su noi stessi, il morto famoso che rimane lì, ectoplasmatico, sullo sfondo.
Chiaro è, visto questo mio doveroso distinguo, il mio tentativo, adesso, di prendere le distanze da questa usanza, tanto per non apparire incoerente. Invece farò esattamente questo, seppur provando, come giusto, a lasciare Valerio Evangelisti al centro della scena, dove deve e dovrà stare.
Io sono in grande debito con lui. Per intendersi, non ci fosse stato lui, ma magari questo potrebbe ai vostri occhi suonare come un demerito, io non sarei qui a scrivere e quindi voi non stareste qui a leggermi.
L’ho conosciuto sul volgere degli anni Novanta, quando lui era già una celebrità, seppur più tra gli addetti ai lavori che presso il grande pubblico, grande pubblico che poi lo incontrerà e amerà per quella sua capacità di far sposare fantasia e storia, che si trattasse di parlare dei tempi dell’inquisizione, appunto, come del Messico di Pancho Villa e Zapata o dell’epoca dei corsari, io uno che stava provando a capire se la scrittura era in effetti il proprio talento. Lo facevo nel solo modo che ai tempi mi sembrava plausibile, e che in effetti mi vedeva in buona compagnia di buona parte di coloro che negli anni a venire si sarebbero affermati come scrittori, sorte che non sarebbe esattamente toccata a me, presto lì a incamminarmi in una strada contaminata con la musica, scrivendo racconti per antologie e magazine, nella speranza che un editore grande si accorgesse di me, il mio libro d’esordio, furibonde giornate senza atti d’amore, pubblicato da poco per la piccola PeQuod lì a provare a farsi notare.
Ci siamo conosciuti a Brera, quartiere un tempo popolare oggi molto alla moda di Milano, per la presentazione di una bizzarra antologia che ci vedeva entrambi partecipi, lui il nome di punta, io uno dei misconosciuti. Sesso alieno, questo il titolo, ES, casa editrice specializzata in racconti erotici a pubblicarlo, Paolo Bianchi il curatore. Io ero da pochi mesi a Milano, e dopo aver lavorato per un po’ all’Eurisko, dove facevo sondaggi telefonici, l’indomani di quella presentazione avevo appuntamento con Stefano Magagnoli alla Mondadori, per un colloquio di lavoro come lettore e, forse, traduttore dall’inglese.
Durante la serata Valerio, che era guardato con ammirazione legittima da tutti noi giovani e acerbi scrittori, era stato ben più che disponibile, seppur dovendo evidentemente combattere con una timidezza piuttosto radicata. Mi aveva chiesto se avessi un romanzo lì, da qualche parte, e al mio sì, avevo scritto una buffa storia di un supereore trans obeso divenuto di titanio in seguito a un infortunio avvenuto durante una operazione, una cosa sperimentale, avevo specificato, alla Balestrini, che proprio a Brera, al Caffè Giamaica, era uso incontrarsi con altri artisti in gioventù, nota a margine. Lui se ne era detto incuriosito, chiedendomi di spedirglielo. Era un’epoca in cui quasi nessuno di noi aveva internet, di quel gruppo di scrittori acerbi il solo Jacopo De Michelis, quindi spedire significava stampare e poi mandare via posta, cosa che ho ovviamente fatto, consapevole che si trattasse di un gesto sterile, il suo dirsi interessato più una carineria fatta nei confronti di chi ci sta provando che qualcosa di reale.
Quella sera, l’ho già raccontato, con noi c’era un tipo buffo, molto simpatico, un viso conosciuto che però non avrei saputo dire perché era conosciuto, dal momento che ero da poco a Milano e non frequentavo praticamente altri che uno sparuto gruppo di amici scrittori, tutti come me alle prime armi, e qualche collega di mia moglie. Il tipo mi chiese a sua volta cosa facevo, e al mio dirgli che l’indomani avrei avuto un importante, per me, colloquio in Mondadori, nel quale riponevo un sacco di speranze, mi disse di bluffare, e di dire sempre e comunque che sapevo fare quel che mi si chiedeva, anche non fosse vero, avrei poi trovato il modo di farlo davvero. Serata piacevole, presentazione portata a casa piacevolmente.
L’indomani sono andato in Mondadori, a Segrate, e ho scoperto che il tipo buffo era proprio Stefano Magagnoli, colui col quale avrei dovuto avere un colloquio. Quando mi chiese se sarei stato in grado di tradurre un libro dall’inglese, io avevo fatto il classico e ai tempi inglese era solo al ginnasio, risposi ovviamente di sì, come mi aveva detto di fare lui stesso la sera prima, seppur nel farlo ero quantomeno perplesso. Nei fatti, Magagnoli mi prese come lettore e dopo neanche un mese mi affidò la mia prima traduzione di un libro, traduzione che in effetti portai a casa agilmente, santo Liceo Classico, e per qualche tempo tradurre libri sarà il mio mestiere. Messo un piede dentro Mondadori, era il 1998, ci sono rimasto ininterrottamente per sei anni buoni, passando poi a fare il consulente editoriale, oltre che saltuariamente il ghost writer.
Ma tornando a quella sera, a Valerio Evangelisti, la cui amicizia con Magagnoli aveva in qualche modo permesso che io riuscissi a entrare a lavorare in Mondadori, per un po’ non lo rividi, né seppi che effetto gli aveva fatto leggere il mio romanzo. Nel mentre avevo preso a lavorare in redazione, mi ero fatto conoscere, e avevo anche firmato il mio primo contratto per un romanzo per la combattiva DeriveApprodi, anche lì, Luigi Bernardi, un pezzo di storia della letteratura di genere italiana che aveva ricevuto il mio romanzo noir Questa volta il fuoco, ero dovuto tornare a Brera, a casa proprio di Jacopo De Michelis, per spedirgliela via mail, io arrivato con il testo dentro dei floppy disc, lui, Luigi Bernardi, che mi chiamava dopo neanche ventiquattro ore per dirmi che voleva che il mio romanzo fosse il primo della collana Vox Noir, da lui diretta, fuori in contemporanea con un altro semiesordiente, Paolo Nori, sì, proprio quello del recente casino alla Bicocca, un suo corso su Dostoevskji censurato in quanto autore russo.
Sia come sia, non ho più notizie di Valerio, e la cosa non mi sorprende. È vero che era stato particolarmente gentile con me, ma essere gentili è un conto, entusiasmarsi per un romanzo altro, e per quanto io credessi nel mio libro non era certo un capolavoro assoluto, ben lo sapevo.
Nei fatti un giorno, mentre alle poste stavo mandando una raccomandata, ecco che mi arriva una telefonata, quelli erano anni in cui ci si sentiva così. Rispondo e dall’altra parte della cornetta, metaforica, un cellulare non è una cornetta, sento una voce che mi dice: “Ciao, sono Stefano Benni, vorrei pubblicare il tuo romanzo Aironfric”. Sulle prime penso sia lo scherzo di un qualche amico, ai tempi il cellulare non ti diceva chi ti stava chiamando, come ora, ma poi penso che i miei amici non avrebbero speso i soldi di una chiamata al cellulare, all’epoca ancora piuttosto cara, per farmi uno scherzo. E poi la voce sembrava proprio la sua, ero un suo fan, non saprei dire neanche quante volte lo avessi visto in presentazioni e spettacoli teatrali. Per farla breve, viene fuori che a lui, Benni, era piaciuto molto il mio romanzo, vai a capire perché, e che a passarglielo era stato un collega e amico cui era a sua volta piaciuto parecchio, Valerio Evangelisti. Così, senza dirmi nulla. Per pura generosità.
La storia finirà che io racconterò entusiasta di questa telefonata ai miei capi, in Mondadori, e che nel giro di un paio di settimane mi ritroverò a firmare come primo autore della neonata collana Strade Blu, lì a Segrate, collana per la quale lavoravo. Non voglio dire che mi abbiano costretto a rinunciare a firmare per Ossigeno, collana della Feltrinelli curata da Benni, ma in pratica la faccenda è andata più o meno così. A dar il suo imprimatur al tutto Ferruccio Parazzoli, l’Obi Wan Kenobi dell’editoria, lì con la sua barba bianca e il suo dare del lei a tutti, un vero e proprio guru rispettato da tutti. Uno di cui i miei genitori avevano libri di preghiere sul comodino, vai a capire perché abbia apprezzato anche lui Aironfric. Con lui, in seguito, insieme a Giuseppe Genna, firmeremo un libro a sei mani, una cover dei Demoni sempre di Dostoevskij, ma anche questa è altra faccenda. A Benni comunicai la cosa, e lui, serafico, mi mandò a fare in culo. Qualcosa di simile farà anche Balestrini, che considererà il mio pubblicare per Mondadori un tradimento. Poco conta che Questa volta il fuoco, uscito per DeriveApprodi che in qualche modo lo vedeva partecipe, uscirà tre mesi prima, sancendo comunque una mia certa militanza, e poco conta che anche lui pubblicherà in seguito con Mondadori e Einaudi, entrambe di Berlusconi. Quelli erano anni fatti così. Per altro, sempre Valerio Evangelisti, firmerà la bandella della seconda edizione di Questa volta il fuoco, uscita sempre per PeQuod, che in qualche modo diventerà un caso editoriale in Spagna, io a scrivere editoriali di politica per El Pais, proprio nel momento in cui Berlusconi comincerà a vacillare, di quello parlava a suo modo quel romanzo.
Nei fatti senza Valerio Evangelisti e la sua generosità non sarei entrato in Mondadori a lavorare, e non avrei pubblicato il mio primo libro con la medesima casa editrice, e non sarei poi stato tradotto in Spagna. Il tutto, così, per pura generosità, senza una amicizia che giustificasse un suo sbattersi con me, senza un tornaconto personale, fino a oggi non credo di aver mai raccontato nei dettagli questa storia.
Di quanto lui sia stato importante come scrittore molti hanno detto meglio di me, e non posso che confermare tutto questo. Di quanto sia stato importante anche come agitatore culturale pure. L’idea che per qualche tempo i suoi libri e i miei, i suoi intrisi di politica, i miei di cazzate, all’epoca pubblicavo quasi solo biografie di cantanti, siano stati dati alle fiamme in alcuni paesi del Veneto, questo perché lui, e anche io, aveva firmato il famoso manifesto per un nuovo processo a Cesare Battisti, mi ha sempre fatto ridere. L’idea che una biografia di Laura Pausini venisse considerata libro da mettere al bando, forse, diceva qualcosa che non ho voluto capire. So solo che oggi la nostra cultura dovrebbe piangere tutta un grande intellettuale. Non lo fa, ovviamente, ma siamo pur sempre questo paese qui.