Seduto a bordo di un Frecciarossa che mi riporta a Milano da Roma ho pensato a come avrei iniziato questo pezzo. In genere parto sempre dall’incipit, per poi strutturarmi lo svolgimento già in testa, tutti i punti cardine intorno ai quali la trama si dipanerà, le deviazioni, i ritorni, le inversioni a U, le soste, tutto quanto. Dire che in genere parto dall’incipit, lo so, suona scontato, da cosa dovrei mai partire, dal finale?, ma nei fatti quando si scrive si potrebbe anche partire da un qualsiasi punto, magari proprio dal cuore del pezzo. Io invece in genere parto dall’incipit, perché so che le parole che sceglierò per partire, e non torno mai sui miei passi, le prime che scrivo restano sempre le prime che apriranno il pezzo, quindi le prime che verranno lette, so infatti che le parole che sceglierò per partire influenzeranno l’andatura del tutto, anche se il mio incedere è spesso a strappi, con cambi di registro, suggestioni differenti, a volte anche contrastanti, più pezzi uno a fianco all’altro, a volte anche uno dentro l’altro.
Seduto a bordo di un Frecciarossa che mi riporta a Milano da Roma, quindi, ho pensato a come avrei iniziato questo pezzo, e sulle prime ho pensato che avrei potuto cominciare da un numero. Non un numero qualsiasi, casuale, è ovvio, non sto qui a fare il mago Othelma, o a mettere parole a caso, avrei voluto iniziare partendo dal numero preciso di minuti che dividevano questo mio viaggio, anzi, no, il viaggio di andata che da Milano mi ha portato a Roma, dal precedente viaggio fatto in treno, per altro sempre a Roma, e diretto sempre allo stesso posto, l’Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini, da qui in poi Officina Pasolini e basta. Mi sono anche messo a fare i conti, non sto qui a riportare il numero in questione, il fatto che non sia partito da lì attesta che evidentemente ho cambiato idea, e pensavo fosse una partenza di un certo effetto. Certo, giorni fa ho messo un altro numero, abnorme, assai più abnorme di quello da cui sarei voluto partire, lì si parlava di qualcosa come trentatré anni in minuti, cioè quanti minuti ci metterei a raggiungere l’età di mio padre oggi, io cinquantadue anni e lui ottantacinque, e in quel caso era un paradosso a beneficio del lettore, perché usavo quel numero per dire che nonostante io possa augurami di campare quanto lui, mio padre, oggi, augurando a lui di vivere ancora a lungo, avendo quindi a disposizione almeno altri diciassette milioni e rotti di minuti a disposizione, non avevo alcuna intenzione di dedicarne una cinquantina, poco meno, all’ascolto dell’album di Blanco, né a quello di Sangiovanni. Un dettaglio, quello del numero dei minuti in questioni, non posto come incipit, e usato per specificare in maniera chiara come io non abbia intenzione assolutamente di ascoltare i loro lavori, il rapporto era appunto cinquanta a diciassette milioni e rotti. Stavolta il numero sarebbe stato assai più basso, di anni ne sono passati poco più di due, ma renderebbe comunque l’idea di quanto tempo sia trascorso dall’ultima volta che sono salito su un treno, diretto anche in quel caso a Roma, all’Officina Pasolini.
L’idea, questo avevo pensato seduto sul Frecciarossa che mi conduceva di nuovo a casa, di ritorno a Milano, era di sottolineare come la pandemia, il Covid19 e tutto quello che il Covid19 ci ha imposto a livello sociale e professionale, ci avesse in effetti tolto qualcosa che difficilmente avremo modo di recuperare, i numeri in questo sono spesso più espliciti delle parole, sempre che i numeri non siano parole, poi. L’idea, ovvio, era anche ricordare a chi tra i miei lettori fosse un mio lettore affezionato il pezzo su Blanco e Sangiovanni, per gli altri incuriositi lo trovate qui, perché anche stavolta ci sono di mezzo come in quel caso artisti che anagraficamente sono assai distanti da me, loro giovane io uomo di mezza età, solo che stavolta li ho ascoltati. Eccome se li ho ascoltati, ci sono partito da Milano, appunto, riprendendo per la prima volta un treno dopo oltre due anni, e se dico oltre due anni avendo specificato che a impedire la socialità è stato il Covid non intendo dire che io già due anni fa non prendevo il treno per il Covid, chiaro, è solo che in genere mi muovo in auto, e l’ultimo treno lo avevo preso a fine giugno 2019, per venire a Officina Pasolini per Femminile Plurale, il Festival dedicato alle cantautrici ideato da Tosca e da me e da me condotto con Cinzia Fiorato del TG1. Nei fatti, il treno che ho preso, metaforico e letterale, è stato un rimettermi in viaggio laddove il mio viaggio, sempre metaforico e letterale, si è interrotto a Sanremo, in quell’Attico Monina che da queste parti è stato raccontato trasmesso e che ha cristallizzato l’ultima volta nella quale ho visto artisti esibirsi in un luogo al chiuso, oltre una delle ultime volte in assoluto in cui io abbia visto artisti esibirsi, da allora, grazie alle estati 2020 e 2021 e ai concerti tenuti all’aperto, contingentati e quest’anno anche col Green Pass, ne ho visti neanche dieci, interrompendo un ritmo di circa un paio alla settimana, così accadeva prima del Coronavirus, per me.
Prendere questo treno, letterale e metaforico, non credo sia necessario specificarlo, è stata una grande, grandissima emozione, e anche una grande, grandissima fatica. Perché nel mentre ci sono stati venti mesi passati in buona parte chiuso in casa, pochi incontri di lavoro, e a parte il periodo estivo il tempo passato davanti al computer, o sul divano, l’apatia che si è sostituita all’entusiasmo, la distanza che è diventata una costante. Solo che giorni fa Tosca mi ha mandato un messaggino, nel quale mi invitava a andare a Officina Pasolini per assistere a Risonanze future, il saggio di fine corso, di fine triennio, degli studenti del suo corso di Officina, quello dedicato alla canzone. Mi ha mandato un messaggio indicandomi la data, 19 ottobre, poco prima di quello che pensavo sarebbe stato il mio primo viaggio in treno dopo circa due anni e passa, il mio primo tornare a incontrare altra gente del mio mondo, in presenza, a ascoltare musica dentro un teatro. Il 22 e il 23, infatti, sarò a Aversa, per la diciassettesima edizione del Premio Bianca D’Aponte. A mente fredda, così, senza pensarci, avrei dovuto rispondere di no, aggiungendo ovviamente qualche parola carina, tipo “mi spiace, ma questa settimana ho già il Bianca D’Aponte, non posso spostarmi due volte da Milano”. Del resto, con Tosca, proprio nell’ottobre del 2019, ci eravamo visti a Aversa, dove lei era la madrina della quindicesima edizione del Premio, salvo poi rivederla a Sanremo, per il Festival edizione 2020, Festival di cui Tosca è stata la indubbia vincitrice morale con Ho amato tutto, e poi anche in estate, nella mia Ancona, io e lei su un palco a scambiarci parole, tra una sua canzone e l’altra, dentro la rassegna Adriatico Mediterraneo, ultima mia volta a parlare in pubblico fino a settimana scorsa, con Enrico Ruggeri, almeno a parlare in pubblico non di un mio libro. Invece ho risposto subito di sì, anche prima di sentire mia moglie se la cosa la incasinava col suo lavoro. Ho risposto sì perché, Puzzer o non Puzzer, credo che grazie ai vaccini, ai Green Pass, a quanto abbiamo fatto e proviamo a fare come nazione, credo che sia arrivato il momento di ripartire, e se dovessi pensare a un posto dove ripartire, un posto che non sia il Teatro Cimarosa di Aversa, dove si terrà appunto il Premio Bianca D’Aponte, è proprio a Officina Pasolini a Roma che avrei pensato automaticamente. Così sono partito e ho assistito a Risonanze Future. Ma prima ancora ho preso quel treno, come nella canzone di Dalla, e ho incontrato nuovamente persone a cui voglio bene, a alcune, come Tosca, molto bene, a altre moderatamente, a altre per niente. Ho rimesso il naso, e quanto a naso, chi ha avuto modo di conoscermi di persona ben lo sa, vado via bene, in un contesto che è stato, almeno fino a un paio di anni fa, il mio mondo, quello della canzone, quello della canzone d’autore, con aggettivi, e che cazzo, che Dio abbia pietà di quelli del Club Tenco, e della canzone dei giovani che vogliono e possono sperimentare. Perché, questo è il bello di Officina Pasolini, gioiello culturale voluto da Tosca, tenuto su con un team di docenti di primo livello, sul palco con i ragazzi c’era il direttore artistico della serata Piero Fabrizi, per dirne uno, e tra il pubblico c’erano Pilar, Joe Barbieri, Paolo Coletta e altri, e sostenuto dalla Regione Lazio, qui i giovani possono non solo imparare e imparare tanto, l’idea di creare una sorta di grande bottega dove i grandi passano i ferri del mestiere a i piccoli è davvero ben pensata e ben realizzata, ma anche di sperimentare, perché essere cullati da una realtà di professionisti che non ha interessi a spremere i giovani come limoni, quel che in genere succede nei talent, è una opportunità oggi unica, da tenere in conto e curare come si fa con le cose preziose.
Risonanze future, quindi, non è stata una sorpresa, come non è una sorpresa incontrare la bellezza laddove sai che la bellezza alberga, ma è stato comunque sorprendente per la varietà di stili e attitudini che i giovani artisti usciti da Officina Pasolini, lo spettacolo in questione sarebbe dovuto andare di scena l’anno precedente, hanno saputo portare su quel palco. Essendo ormai cinque anni che faccio regolare visita a questa realtà, ho visto tanti bei talenti transitare da queste parti e vedere i propri talenti messi non solo in luce, ma anche in condizione di splendere una volta usciti di qui, stavolta non è stato diverso da questo encomiabile solito. Dovessi io, e non sono certo il tipo di persona che pratica la diplomazia, dai, non scherziamo, dovessi io scegliere qualche nome dal mazzo che ha calcato il palco, non avrei dubbi sul chi citare, ma credo che non sia questo il luogo dove fare quello che la sa lunga, indicare qualche nome pensando poi di poter dire “ve l’avevo detto a suo tempo, io”. A chiosa di questo pezzo, quindi, non ho usato l’incipit che avevo pensato, quello col numero di minuti che ha diviso il mio ultimo viaggio di lavoro in treno dal mio penultimo viaggio di lavoro in treno, ma so bene come lo chiuderò, troverete tutti i diciotto artisti che si sono esibiti a beneficio di un pubblico di addetti ai lavori, discografici, giornalisti, critici, promoter, uffici stampa, nelle date del 19 e del 20 ottobre 2021, online trovate ancora la serata del 20, trasmessa in streaming, così, senza fronzoli. Poi, è chiaro, non dicessi che le performance di Jacopo Troiani, con la sua Verona, o di Lorenzo Lepore, con Niente di che, come quelle di Marianne Leoni, con Se mi ami, Sergio Andrei, con Zingara, Ludovica Mannoni, con Passiflora, Chiara Bruno, che avevo già visto proprio al Premio Bianca D’Aponte, con Insistere e resistere, e Umberto Scaramozza con Non bisogna parlarne, mi sono sembrate davvero molto interessanti, verrei meno alla mia mission, cioè quella di accendere riflettori laddove ancora i riflettori non sono arrivati, ma La melodia delle cose di Giulia Annechino, Mare Calmo di Martina De Santis, Freaks di Stefano Crialesi, insieme a Scaramozza produttore di parte dei brani ascoltati, Pareti rosa di Gabriele Minino, Sfinge di Filippo Muscaritoli, Prima pagina di Marco D’Andrea, Da qui, di Paola Consagra, Deja vu, di Eugenio Saletti, Tra bene e male, di Claudio Orfei, P.M.I., di Lorenzo De Angelis e Qualcosa non va, di Daniela Mirenghi non sono assolutamente da me. Chiaro, stili diversi, generi molto diversi, presenza di scena assai diversa, Orfei è un soggetto assolutamente dotato di un fascino fuori dal tempo, la Mirenghi una sorta di elfo psichedelico e impellicciato, Andrei una forza della natura e la Leoni, come anche la Mannoni, due presenze dotate di un alto tasso di eleganza, tutti sono però davvero di livello, formati, talentuosi, pronti a confrontarsi col pubblico, quindi col mercato, sempre che ne esista ancora uno.
Ammettendo candidamente che no, neanche riguardo il finale ho mantenuto l’idea iniziale, che senso avrebbe mai fare l’elenco degli artisti presenti dal momento che li ho già citati tutti?, non mi resta che ribadire, ripetita iuvant, come Tosca, Piero Fabrizi e gli altri stiano facendo qualcosa che, in un mondo non dico giusto, ma normale, sarebbe presente in tutte le città, e che invece, in questo mondo di merda qui in cui viviamo, è presente solo a Roma, la città da cui un Frecciarossa con pochi passeggeri, tutti con mascherina e profumati di Amuchina, mi sta allontanando, diretto di nuovo al divano di casa, quello che spero non sarà più il solo posto sul quale passare il mio tempo nei prossimi mesi.