Quando ormai nove anni fa Ivano Fossati ha annunciato il suo ritiro dalle scene, ritiro solo parzialmente ritrattato dall’aver poi pubblicato un album in coppia con Mina, giustificato dall’essere appunto un album con Mina, e solo Dio sa se a fronte del nuovo spot della Tim Fossati non abbia cambiato idea riguardo al collaborare con la cantante delle cantanti, quando ormai nove anni fa Ivano Fossati ha annunciato il suo ritiro dalle scene, dicevo, ha addotto a motivazione una frase che, immagino, poco sarà stata capita da chi non scrive per lavoro. Anzi, una frase che, immagino, fosse stata detta oggi avrebbe pure creato una qualche polemica sui social, sarebbe diventata virale, oggetto di un qualche tipo di shit storming di cui presto si sarebbe dimenticata l’origine, e che avrebbe finito semplicemente per lasciare quell’alone di sporco che sempre gli shit storming lasciando dietro di loro. Lo dico consapevole che questo mio dire potrebbe a sua volta essere usato contro di me, come se io fossi uno snob che si include in un qualche gruppo di gente che scrive e che quindi dice cose che gli altri non possono capire, anzi, che possono usare per fare shit storming, un professorone, un intellettualone, per dirla con le parole di oggi. Cosa, questa di essere frainteso, prima, e oggetto di shit storming, poi, che mi lascia abbastanza indifferente, ci sono piuttosto abituato e onestamente essere capito da tutti non rientra nelle mie priorità, lo dico tanto per rendermi ulteriormente attaccabile da chi volesse farlo, così, gratis.
Comunque, quando ormai nove anni fa Ivano Fossati ha annunciato il suo ritiro dalle scene, dicevo, ha addotto a motivazione una frase che, immagino, poco sarà stata capita da chi non scrive per lavoro: mi ritiro perché non voglio più dover pensare a che parole scegliere per raccontare un qualsiasi momento la vita mi presenta di fronte. Le parole non erano quelle, non ci sono virgolette, infatti, ma il concetto era esattamente questo qui. Scrivere, che si tratti di canzoni, di romanzi, di qualsiasi cosa si scriva non volendo semplicemente inseguire una notizia, porta chi lo fa a stare costantemente concentrato su come raccontare qualcosa, o se la qualcosa che sta capitando possa in qualche modo diventare oggetto di un racconto. Un condizione di cui, a un certo punto, ci si può in effetti stancare, esattamente come ci si stanca di qualsiasi altro lavoro, lo dico consapevole che ci sarà qualcuno, presumibilmente qualcuno che non ha mai chinato la schiena per alzare un carico pesante a mano o con un paranco, pronto a tirare in ballo quelli che lavorano in miniera.
Ivano Fossati non ha più voluto, a un certo punto, concentrarsi sulla vita dal punto di vista di chi la vita la scrive e la canta. Ha voluto, anche questo ha detto, passeggiare al mare semplicemente per passeggiare al mare. Nel mentre c’era qualcuno che lavorava in miniera, sì, ovvio.
Dico questo non solo per sottolineare come in effetti raccontare stanchi, ognuno anche amando il proprio lavoro, sempre che lo ami, si stancherà per quel che fa, suppongo, ma perché a volte mi sembra di essere estremamente cinico. Credo che il cinismo fosse il non detto del discorso di Fossati, lo credo senza paura di essere smentito. Quel cinismo che ci fa affrontare certi dolori, magari dolori non nostri, ma anche i nostri, con lo sguardo di chi quei dolori poi li infilerà in un testo, in una poesia, in uno scritto, materia pulsante, vita che trasla nell’arte.
Anche qui, ci sono altri problemi, e sticazzi.
Quel cinismo lì, quello di Fossati e anche il mio, in queste ore sta impattando drammaticamente, faccio per dire, con le immagini e le notizie che ci arrivano da oltreoceano. Vedere le immagini dei primatisti bianchi che, sobillati da Donald Trump, irrompono vestiti come alla Festa di Ragnarock a Capitol Hill, al Palazzo del Congresso, vedere Jake Angeli, lo Sciamano di Qanon, col suo copricapo da vichingo, fatto con corna e pelle sembra di bufalo, il torso nudo, i tatuaggi tribali, o il tizio che assomiglia a Vasco, il cappellino calato in capo e le scarpe incrociate sulla scrivania di Nancy Pelosi, ecco, vedere queste scene mi hanno ovviamente indignato, come sempre mi indigna quando la democrazia in ogni sua forma viene messa a repentaglio, mi ha anche un po’ divertito, questo prima di sapere delle vittime, perché il fatto che a essere messa a repentaglio sia stata, almeno apparentemente, la democrazia dello stato che per decenni si è premurato di esportare democrazia, per altro a suon di colpi di stato, ha qualcosa di sinistramente ironico, mi ha pure messo qualche dubbio, perché è vero che la polizia, in America come anche da noi, non è tendenzialmente frequentata da personaggi ascrivibili all’area politicamente identificabile come “sinistrorsa” o “anarchica”, come potrebbe mai essere, ma ricordare le scene da guerra civile, la Guardia Nazionale schierata in armamenti bellici sulle scalinate del Campidoglio, quando la popolazione faceva sentire la sua voce per il Black Lives Matter, dopo il barbaro omicidio proprio da parte di un poliziotto di George Floyd, e vederli ieri che si scansavano per far passare questi scappati di casa, facendocisi pure i selfie, beh, un qualche minino dubbio non può che istillarlo, perché magari invece che un tentativo di golpe potrebbe essere un tentativo di golpe indotto, un voler dire che si è a rischio golpe per mettere definitivamente da parte l’avversario, per altro sempre meno credibile, Donald Trump, magari anche alzando il livello di tensione per evitare opposizioni troppo ferree.
Ora, lo so, ho appena espresso una teoria che potrebbe essere bollata come complottista, non fosse stata espressa in un italiano corretto e anche con un minimo di lucido sguardo dubbioso, e essere complottisti quando gli attori della propria teoria sono proprio i complottisti aprono uno scenario di scatole cinesi che solo a pensarci mi esce il sangue dalle orecchie. Non volevo essere complottista, solo esprimere da una parte sarcastica indignazione per un trattamento di riguardo tenuto dalla polizia nei confronti dei primatisti bianchi, le bandiere confederate che si girano per Capitol Hill fanno palpitare il mio cuore di fan del southern rock, ma non trattandosi del pubblico di un concerto dei Molly Hatchet, forse, mi dovrebbero solo far inorridire, dall’altra ipotizzare che chi da sempre organizza golpe in giro per il mondo, magari, volendo organizzarne uno in casa avrebbe potuto fare le cose un po’ più a modo, cento idioti armati che scavalcano mura e entrano indisturbati nel Palazzo del Congresso in una nazione dove se parcheggi fuori dalle linee in terra ti arrestano, e se sei di colore capace che ti soffocano anche, beh, sembrano meno credibili della tinta di capelli di Donald Trump stesso.
E visto che parlo di complottismi e ho anche citato lo Sciamano di Qanon, simbolo di questo attacco alla democrazia, personaggio già noto dell’ultradestra americana che tutti ci tengono a sottolineare ha origini italien, Jake Angeli è in effetti il suo nome, un aspetto che mi ha sempre incuriosito di questi soggetti, quelli che credono che la terra sia piatta, che ci sia un complotto della massoneria pedofila che vuole governare il mondo, che pensano che, per essere attuali, il Covid non esista e il vaccino sia un modo per inocularci microcheap coi quali poi verremo controllati attraverso il 5G, ecco, mi sono sempre chiesto da che presupposti partono per ideare le proprie teorie. Nel senso, capisco che un minus habens possa credere che la terra è piatta perché lo legge su Facebook. Lo capisco perché un minus habens è un minus habens, credo sia normale non sia sufficientemente intelligente per riconoscere una fake news, anche una fake news che prova in poche righe sgrammaticate a ribaltare scoperte che ormai sono radicate da secoli. Ma mi chiedo, prendiamo a esempio i terrapiattisti, che interesse dovrebbe avere qualcuno, vai poi a capire chi, immagino Soros o Bezos o Bill Gates, a farci credere che la terra è una sfera schiacciata ai poli e non piatta? Mi spiego meglio, mi è stato spiegato alle elementari la conformazione del pianeta nel quale vivo. Lo sapevo già, immagino, perché sono nato un mese e qualche giorno prima dello sbarco sulla Luna, anche questo ovviamente falso, stando ai complottisti, ci sono teorie che vogliono Kubrick a girare le scene in qualche studio hollywoodiano che sono da un punto di vista narrativo, pura poesia, e quindi sono cresciuto con le immagini del nostro pianeta visto dalla Luna, oltre che con un mappamondo appoggiato sulla scrivania di mia sorella. Mi è stato detto che la Terra era una sfera schiacciata ai poli, anche se il Mappamondo era una sfera e basta, ci ho creduto. Perché mai avrebbero dovuto dirmi una idiozia? A che scopo? Con quale interesse nascosto dietro? A un terrapiattista cosa cambia se la Terra è piatta o sferica?
Questa cosa, questa domanda, mi ha sempre colpito, leggendo dei terrapiattisti, dico leggendo perché non mi è mai capitato di incontrarne uno di persona, o se mi è capitato, un po’ come succede per i coprofagi, per dire, quelli che mangiano feci umane, o un po’ tutti quelli che praticano feticismi o hanno passioni comunemente ritenute poco consone a un vivere civile, se mi è capitato il terrapiattista si è ben guardato dal palesarsi come tale, minus habens, quindi, ma con un buon grado di coscienza di sé, nonché di volontà di non apparire idiota agli occhi degli altri, quindi, no, non credo di aver proprio mai incontrato un terrapiattista, sui coprofagi non ci metterei le mani sul fuoco.
Ecco, questo è quel che mi succede in genere. Lo avete letto parola dietro parola.
Succede un fatto per certi versi drammatico, sempre che si possa definire drammatico qualcosa che ha per simbolo un tizio a torso nudo a Washington il 6 gennaio, con in testa un copricapo con corna di bufalo, succede un fatto comunque drammatico, ci sono stati dei morti, e io mi concentro su dettagli ininfluenti. Mi spiace, è ovvio, ma credo che, da scrittore, assistere a tutto questo sia quasi un privilegio, un colpo di fortuna. So che dire questo è davvero troppo. Una istigazione a chi mai volesse coprirmi di guano con uno shit storming, magari per il piacere di un qualche coprofago in incognito che fosse dalle mie parti, ma tant’è. Da una parte vorrei che certi fatti non accadessero, dall’altra il fatto che accadano mi sembra talmente incredibile da indurmi a guardarli con gli occhi a forma di cuoricino, quanta materia da plasmare nei miei scritti, questo penso.
Mi fossi ritirato, come Ivano Fossati, non avrei di questi problemi, per ricollegarmi all’incipit di questo capitolo. Starei a seguire la cronaca indignato, maledicendo Trump e i suprematisti bianchi, certo non escludendo critiche violente alla polizia, ma la faccenda finirebbe lì.
Finirebbe lì, si fa per dire.
Il mio programma a RTL 102,5, quello arrivato dopo il Sanremo 2017, nel quale occupavo come ospite un po’ tutto il palinsesto presentato come L’Anticonformista, un nome cheap che a me ricordava vagamente L’Anticristo, il mio programma a RTL 102,5, si intitolava Monina Against The Machine. Così era anche scritto sul van da dodici posti nero con la mia faccia sulla fiancata a bordo del quale, nello stesso Festival, intervistavo i concorrenti alla kermesse canora. Un chiaro rimando ai Rage Against The Machine, non credo serva dirlo, con anche un pizzico di spirito punk, prima di arrivare al van nero si era ipotizzato di fare le interviste su una chiatta ormeggiata al porticciolo turistico di Sanremo, un po’ come omaggio a quella a bordo della quale i Sex Pistols provarono a eseguire i loro brani durante il Giubileo della Regina. Essere contro la macchina è un po’ la mia missione, o la mia modalità d’azione. Figuriamoci se, sulla carta, ho qualcosa contro l’idea di alzare la voce e farsi sentire. Ho però molto contro chi per farsi sentire prevarica gli altri, e, non credo serva sottolinearlo, ne ho molti nei confronti di chi si professa di ultradestra, e per di più ha per leader un gaglioffo multimiliardario come Donald Trump. Il fatto che buona parte dei nostri media, compreso, per dire, un Enrico Mentana, abbia costantemente chiamato questi golpisti più o meno credibili “manifestanti” mi lascia basito, perché i manifestanti non tendono a entrare armati nei luoghi istituzionali, non inneggiano al rovesciamento dei risultati elettorali, si limitano appunto a manifestare.
Durante la campagna elettorale precedente, quella vinta appunto da Trump, ho seguito con molto coinvolgimento le azioni di buona parte dei Rage Against The Machine con parte dei Public Enemy, quei Prophets of Rage che vedeva in line-up Tom Morello, Tim Commerford e Brad Wilk dei primi, e Chuck D e DJ Lord degli Enemy più B Real dei Cypress Hill, un supergruppo antagonista che ha fatto da contrappunto a tutta la campagna elettorale del tycoon, andando a improvvisare concerti a bordo di un camion nelle città nelle quali il nostro teneva comizi, prima, e andando poi a fare veri e propri concerti, poi. Una azione situazionista, certo, decisamente intellettuale, che poi si è cristallizzata nell’album eponimo, uscito nel 2017. Anche quella mi sembrava una trama avvincente cui guardare, un modo alto di pensare l’opposizione a un politico ritenuto sulla carte impresentabile, la storia avrebbe poi dato ragione a Morello e soci, e quindi da osteggiare con gli strumenti che l’arte metteva a disposizione, le canzoni. Contrapporre violenza, con la condiscendenza delle forze armate, per altro guidate non da Trump, come qualcuno ha sostenuto, Trump avrebbe semmai dovuto chiamare la Guardia Nazionale, ma dal sindaco di Washington, Dem, contrapporre violenza al normale svolgimento di un passaggio di consegne tra un presidente e il suo successore, passaggio per altro già ostacolato da una melina infinita, i tribunali ritati in ballo per il riconteggio dei voti, i ritardi, le dichiarazioni inaccettabili sui social, beh, tutto questo diventa un gesto inqualificabile. Un gesto inqualificabile che, da narratore, trovo affascinantissimo, come il James Ballard che rallenta in autostrada per guardare i dettagli scabrosi e macabri di un incidente, fatto poi reso arte nel suo Crash come ne La mostra delle Atrocità. Questo dovrebbe sempre fare un artista, credo. Questo fa un artista di cui vi ho parlato già in un altro capitolo di questo diario, Porfirio Rubirosa, cantautore veneto che ha da poco dato alle stampe un album che è un continuo concentrarsi sul cadavere incastrato tra le lamiere che è il nostro paese, il nostro modo di vivere, la nostra stessa esistenza. Un concentrarsi sul cadavere che però non è mai compiaciuto, piuttosto partecipe, lo sguardo di chi non può e non vuole levare gli occhi, in cuor suo forse grato, come dicevo prima, dell’opportunità di essere vivo e attivo in un periodo come questo, dove un anno da poco cominciato ci sta già regalando scene come queste, alla faccia che il 2021 sarebbe stato migliore del 2020. Il suo Breviario di teologia dadaista ci presenta una versione della mostra della atrocità ballardiana nella quale ironia e anche una forma estrema di pietà umana si sostituisce allo sguardo algido dell’autore britannico. Un disco che merita più ascolti, i testi sono davvero complessi, seppur mai complicati, le citazioni innumerevoli, a un certo punto si cita anche me, non a caso il booklet è pieno di notazioni, seppur scritte troppo in piccolo per essere lette da un uomo di mezza età come me, con musiche che vanno di volta in volta a fare l’occhiolino al country, al rock’n’roll, a certo cantautorato anni settanta, a volte addirittura a certo folklore europeo, un sirtaki non ce lo vogliamo mettere?, sempre e comunque al servizio di una forma canzone che sembra convenzionale ma che di convenzionale non ha nulla, non a caso il titolo tira in ballo il dadaismo, le parole, anche per i dadaisti, sembra non essere lì per caso. Per altro proprio il brano in apertura affronta a sua volta il tema a me caro dei terrapiattisti, Tolomeo perché sei morto, andando a aprire le danze con un testo sferzante ma al tempo stesso empatico. Niente e nessuno è tenuto fuori da questo prontuario, noi compresi, e a suo modo le dodici tracce che ne compongono la scaletta, le mie preferite oltre alla già citata Tolomeo perché sei morto sono Il Giardino dell’Eden, La Confusione, brano che trovo letteralmente geniale col suo elenco contrapposto di elementi che tendiamo a confondere nel nostro gergo e nel nostro pensiero, Il Diluvio Universale, per una bieca faccenda di cavalli che affogano dal culo, e L’Omino Biscottino, seppur io, a differenza di Porfirio Rubirosa, sia un estimatore della carne animale, almeno a tavola.
Credo che se mai dovessi pensare a una colonna sonora ideale per le scene che tutti abbiamo visto e stiamo vedendo del Palazzo dei Congressi occupato da personaggi che normalmente penseremmo a una festa di carnevale o a un concerto reunion dei Village People, lo Sciamano di Qanon in testa, è proprio Prontuario di teologia dadaista di Porfirio Rubirosa, non me ne vogliano Chuck D e Tom Morello. La situazione è tragica ma non è seria, dice la fin troppe volte citata massima di Ennio Flaiano, ormai un po’ logora, in questo caso la situazione è tragica e basta, in assenza della Guardia Nazionale fate largo all’Avanguardia, pubblico di merda.