Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Titolano tutti così. Perché John Frusciante ci è appena tornato, nel gruppo. Lo hanno annunciato nelle ore scorse direttamente gli altri del gruppo, i Red Hot Chili Peppers, parlando di cuori gonfi di gioia, e non c’è da dubitarne, anche perché pochi giorni fa sembrava che John non volesse saperne di accettare il loro invito, loro di Anthony, Flea e Chad, gli altri tre ragazzi, ormai uomini maturi, del gruppo. John è rientrato nel gruppo, e subito tutti, ma credo proprio tutti tutti gli italiani che seguono la band, o anche quelli che sono incappati casualmente nella notizia, hanno pensato al romanzo di Enrico Brizzi, magari senza neanche sapere che a scrivere Jack Frusciante è Uscito Dal Gruppo è stato Enrico Brizzi, appunto. Senza neanche sapere che John Frusciante si chiama John, mica Jack.
Anche io l’ho pensato, come tutti, e siccome ai tempi, sempre quei famosi venticinque anni fa di cui vi sto ininterrottamente parlando da qualche mese a questa parte, ero presente sul luogo del delitto, ben lo so che a uscire dal gruppo era John e non Jack e ben so che a chiamarlo Jack è stato Brizzi, su precisa indicazione del suo editor di allora, Massimo Canalini della casa editrice anconetana Transeuropa. Quello è il luogo del delitto di cui parlo, per la cronaca, non certo casa madre dei Peppers. Ai tempi in cui Jack Frusciante è Uscito Dal Gruppo, il libro, è uscito nelle librerie, venticinque anni fa, io ero un neanche troppo giovane autore in cerca di una lingua, e per cercare quella lingua frequentavo la casa editrice che nel mentre era assurta a fama nazionale grazie a Brizzi, dopo essere già assurta a altra gloria per aver dato alle stampe le antologie Under 25 curate da Pier Vittorio Tondelli e i romanzi e racconti della mia coetanea e quasi compaesana Silvia Ballestra. Ero lì, mentre Canalini e Brizzi personalizzavano a mano le copertine di quella prima edizione. Ero lì mentre l’Italia tutta, perché allora era davvero l’Italia tutta ad accorgersene, esultava perché di colpo a scrivere i libri erano i ragazzi, i giovanissimi, intuizione prima di Tondelli e poi dello stesso Canalini. Ero lì a chiedermi se mai sarei riuscito a trovarla, quella benedetta lingua mia e mia soltanto, e nel mentre mi esercitavo a scrivere, seguendo indicazioni che non mi avrebbero portato da nessuna parte.
Da qualche parte ci andò, eccome se ci andò, Brizzi. Perché quel libro divenne un best seller, di quelli che poi non smettono mai di vendere, complici le scuole che infilano il titolo nelle liste dei libri consigliati, trasformando un best seller in un long seller, una sorta di ever green della letteratura. Lui, Brizzi, da quel momento si sarebbe perso, inseguendo altro, prima una vena pulp piuttosto improbabile, con quel Bastogne che presenterà in anteprima al laboratorio Ricercare di Reggio Emilia cui anche io, ancora neanche esordiente, ero stato invitato a partecipare coi miei racconti balestriniani, poi con una serie di titoli sempre meno apprezzati dal pubblico, fino a un recente doppio filone, da una parte quello degli psicoatleti, libri in cui è il camminare in giro per il mondo il cuore della poetica, dall’altra un filone distopico in cui si parla di un mondo in cui a vincere le guerre siamo stati noi, ancora alleati con Germania e Giappone, qualcosa che potrebbe stare dalle parti del Dick dell’alto castello. Dick che per altro era alla base anche di quell’esordio, perché per stessa ammissione di Brizzi la prima versione di Jack Frusciante non era affatto un racconto adolescenziale a base di rock e malesseri giovanili, ma qualcosa che si muoveva goffamente dalle parti Blade Runner.
Ecco, letteratura che flirtava con il punk, col rock, ecco cos’era Jack Frusciante è Uscito Dal gruppo, come del resto lo erano i primi libri di Silvia Ballestra, Il Compleanno Dell’Iguana e La Guerra Degli Antò, e anche di Lorenzo Marzaduri, tutti editi da Transeuropa.
E Brizzi, in effetti, nel suo cazzonismo giovanile era piuttosto rock, lì a fare il grosso col plauso di Vasco, con la colonna sonora del film a base di Umberto Palazzo e il Santo Niente e Markene Kuntz, oltre che tante varie e eventuali di primissima scelta. Lo ricordo una volta, qualche anno dopo aver smesso di frequentare Transeuropa, in un locale di Ancona, della mia Ancona, esibirsi dal vivo coi Numero6, una band genovese che si muoveva in territori del power pop di chiara matrice anglosassone. Della serata non ricordo molto, a dire il vero, se non un senso di potenza che non si faceva quasi mai atto, fatto che anche l’ascolto dell’album che da quella collaborazione è venuto fuori, Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro, undici canzoni ispirate dall’omonimo romanzo di Brizzi, ha sortito in me. Del resto tra Brizzi e i Numero6, derivazione della precedente band Laghisecchi, avevano già avuto modo di collaborare, suo il testo di Navi stanche di burrasca nell’album Quando Arriva La Gente Si Sente Meglio, EP dal piglio internazionale che procurerà alla band una prestigiosa recensione su Pitchfork, la Bibbia radical chic del rock americano e non. E sempre del resto già un precedente libro di viaggi, Nessuno Lo saprò. Viaggio a Piedi Dall’Argentario Al Conero, il mio Conero, ci tengo a sottolineare, era diventato un album in compagnia, in quel caso, coi Frida X.
Curioso che proprio nell’anno del venticinquennale di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, nei mesi scorsi Brizzi ha girato l’Italia in una serie di presentazioni revival del suo fortunato esordio, John Frusciante decida di rientrare nella band a distanza di dieci anni dalla sua seconda fuoriuscita, con buona pace del malcapitato sostituto Josh Klinghoffer. Una coincidenza che, editorialmente, sembra frutto di una fortunata congiuntura astrale. Ma è ancora più curioso che il tutto accada nel momento in cui è da poco fuori il nuovo lavoro solista di Michele Bitossi, leader di quei Numero6, ora senza più neanche il suo nome d’arte Mezzala. Un lavoro, il nuovo del cantautore genovese, dal titolo A Noi Due, nato da un momento particolarmente delicato della sua vita personale, un divorzio arrivato dopo sedici anni di vita insieme. Fatto quest’ultimo che lo ha indotto all’utilizzo del solo nome e cognome anagrafico.
Michele Bitossi, quindi, dopo essere uscito dal gruppo, proprio come Frusciante, è uscito anche di casa, e ha deciso di mettersi a nudo, spogliando di soul le sue canzoni, perché è da quelle parti che si aggirava il precedente Irrequieto, sempre con un occhio all’Inghilterra, sia chiaro, andando a costruire dieci canzoni che potessero raccontare con leggerezza uno dei momenti più difficili della sua esistenza.
Al suo fianco stavolta solo due collaboratori, nonché amici, Ivan Rossi e Ale Bavo, con in più la collaborazione per alcuni testi dell’esimio scrittore Matteo B. Bianchi, già in passato al suo fianco. Una squadra ridotta all’osso, per un lavoro che in effetti punta molto sull’essenzialità, sempre riuscendo nell’intento di proporre un power pop solido e riconoscibile, votato più agli anni 80, ai synty, pur senza perdere di vista l’amata chitarra. Proporre testi personali, dolorosi, anche, su musiche leggere, pop appunto, è una scelta vincente, da artista di classe, e non lo dico perché nell’unica occasione in cui ci siamo visti, un paio di anni fa a Sanremo, mi ha regalato una maglia originale della nostra squadra del cuore, il Genoa.
Squadra che quanto a regalare dolori, credo, al momento non ha eguali in Italia, e lo dice uno che, a differenza dello stesso Bitossi, genovese doc, l’ha scelta nel mazzo, forse innamorato proprio di quell’aura maledetta e orgogliosamente perdente.
Aura che del resto, seppur da poche ore nuovamente in una superband come i Red Hot Chili Peppers, da sempre porta come un vessillo anche lo stesso John Frusciante, chitarrista dotato di una sua cifra piuttosto riconoscibile, più che di una tecnica impeccabile.
Anche su Frusciante ho un mio aneddoto personale, neanche poco significativo. Un aneddoto legato alla scrittura, alla scrittura di musica e, quindi, alla mia lingua, alla mia cifra.
Dopo aver mandato a cagare Canalini, in quella prima metà degli anni Novanta, sono arrivato alle mie prime pubblicazioni, ve ne è ho parlato in precedenza. Ero un devoto seguace di Nanni Balestrini, e a lui mi ispiravo più che chiaramente. Pubblicata la mia prima raccolta di racconti, furibonde giornate senza atti d’amore, sono arrivato nel 1999 a pubblicare i miei primi due romanzi, a distanza di tre mesi l’uno dall’altro. Questa faccenda di pubblicare libri in sequenza ravvicinata si è poi susseguita nel corso degli anni, anche perché in ventidue anni di libri ne ho pubblicati settantotto, quindi distanziarne le uscite sarebbe risultato quantomeno difficile. Quella concomitanza di uscite ha fatto sì che cominciassero a parlare un po’ di me riviste e quotidiani, perché ero pur sempre un giovane narratore che si affacciava alla ribalta in un momento in cui essere giovani sembrava un valore aggiunto. Così sono arrivate anche le prime proposte di collaborazione con riviste come Panorama, Gente Viaggi e anche Tutto Musica. Proprio quest’ultima collaborazione, che di lì a breve mi avrebbe aperto le porte della critica musicale, è legata non poco a Bitossi e a Frusciante, ma entrambi, credo, lo ignorano. Succede che un giorno mi chiama Matteo B. Bianchi, quel Matteo B. Bianchi che ha collaborato ai testi di A Noi Due. Vivevo da neanche due anni a Milano, e i miei amici erano allora quasi tutti scrittori che avevo conosciuto tramite un giro di riviste letterarie per le quali ero stato chiamato a scrivere, tra le quali la sua, Tina la rivistina. Matteo mi chiama e mi dice che il locale Tunnel, un locale all’epoca dedito al rock che si trovava in uno dei tunnel sotto la Stazione Centrale, aveva da poco dato alle stampe una rivista che era disponibile gratuitamente all’interno del locale. Tunnel, si chiamava. Lui era stato chiamato in qualche modo a coordinarne i contenuti, mi sembra di ricordare. Sia come sia mi chiede se mi va di scrivere un racconto per loro. Accetto di buon grado, perché a quei tempi ogni tipo di collaborazione, anche se gratuita come in quel caso, mi sembrava una figata. Scrivo questo racconto che si intitola Il Tiracapezzoli. All’epoca avevo da poco mollato l’impegno civile di Nanni Balestrini, per buttarmi sull’avant pop di autori come David Foster Wallace e soprattutto Mark Leyner, quello di Mio cugino, il mio gastroenterologo, autore che adoravo. Il tiracapezzoli raccontava, brevemente, la storia di un disoccupato che trovava lavoro come “preparatore atletico” delle star che avrebbero posato per uno dei calendari in regalo con riviste come Max o GQ. Era il periodo dei vari calendari della Ferilli, di Paola Barale, della Marcuzzi. Marcuzzi che per altro avevo conosciuto proprio al compleanno di Matteo B. Bianchi, già all’epoca votato a una certa glamourness. Il protagonista del mio raccontino, in sostanza, doveva far diventare turgidi i capezzoli delle ragazze in questione, affinché tali comparissero nelle foto del calendario. Un raccontino avant pop, appunto, niente che meriti di essere ricordato a distanza di venti anni. Non fosse che quel racconto capitò tra le mani di Luca Valtorta, allora caporedattore di Tutto Musica, capitato per un concerto al Tunnel. Così succede che un giorno mi arriva una sua telefonata nella quale mi chiede se mi andava che il mio racconto finisse nelle pagine di Tutto Musica. Luca sembrava un po’ in imbarazzo nel dirmi che me lo avrebbero pagato solo un milione di lire. Da quel momento, per qualche mese, ho scritto racconti per Tutto Musica, tutti pagati quella cifra, tutti ugualmente dimenticabili. Poi un giorno io e Luca ci siamo messi a parlare di musica, e ho potuto raccontare del mio passato negli Epicentro, un tempo Dead Kossigas, band punk che si è mossa proprio a metà degli anni Novanta dalle mie parti. Ho anche potuto dimostrare la mia preparazione musicale, perché in fondo è da quando faccio le elementari che studio musica e teoria musicale. Sia come sia Luca mi chiede se mi va di iniziare a scrivere di musica per Tutto, iniziando in qualche modo quella che sarà la mia carriera alternativa all’essere un narratore. La prima intervista che mi propone è a un chitarrista che è da poco uscito da una superband, i Red Hot Chili Peppers: “Ti andrebbe di intervistare John Frusciante, Michele?”
Così è iniziata la mia carriera da critico musicale, anche se già in precedenza avevo avuto modo di scrivere di musica per Panorama, intervistando Beck e Trent Reznor, infatti, è con la continuità di quei cinque anni presso la rivista storica della Mondadori che mi farò le ossa e che, in qualche modo, verrò riconosciuto come tale dalla comunità musicale. Tutto è partito da un racconto su un ragazzo che inturgidiva i capezzoli delle star televisive con dei ghiaccioli, affinché non sfigurassero nei calendari per arrivare a me seduto all’Hotel Principe di Savoia di frone a John Frusciante, a parlare del suo primo album solista. Vedi come è strano il mondo.
Talmente strano che da lì poi nulla si è fermato, fino a oggi che son qui a palare di A Noi Due, il terzo album solista di Michele Bitossi, primo senza il nome d’arte Mezzala. Eh già, perché esiste un sottile filo rosso che collega Brizzi, Frusciante e Michele Bitossi, un filo neanche troppo sottile, nonostante da un anno vada avanti a barrette e sia costantemente sotto dieta ferrea: sono io.