Il Cacciatore, torna al cinema il capolavoro di Michael Cimino sulla guerra del Vietnam (e molto altro)

Dal 22 al 24 gennaio Lucky Red distribuisce in versione restaurata il film con Robert De Niro, che vinse 5 Oscar. Bollato all'epoca come reazionario, è una delle opere fondamentali degli anni Settanta, che ricapitola lo spirito del tempo

Il Cacciatore

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Non cercate simbolismi nel film, non ce ne sono. Non c’è neanche un fine politico, questo film non parla nemmeno della guerra del Vietnam. Parla di quello che accade quando una catastrofe colpisce un gruppo di amici che sono come una famiglia, in una piccola città. Questo è un film sulle persone”.

Quando venne invitato nel 2005 dalla Cineteca di Bologna, che aveva restaurato il suo capolavoro maledetto I Cancelli del Cielo, Michael Cimino, in una delle non numerose occasioni pubbliche a cui prendeva parte, ribadì ciò che pensava del suo film più celebrato, Il Cacciatore, che uscito nel 1978 conquistò cinque premi Oscar su 9 nomination (tra cui miglior film e regia). E in tanti allora salutarono la nascita di un grande regista.

Oggi quel film, a 45 anni dalla sua prima uscita, ritorna eccezionalmente nelle sale per tre giorni, dal 22 al 24 gennaio, distribuito da Lucky Red in una smagliante versione restaurata in 4k, che consentirà a molti di rivivere una straordinaria esperienza cinematografica e ai più giovani, magari, l’occasione per vederlo per la prima volta, come merita, su grande schermo.

A tanti, dicevamo, parve fosse nato un nuovo autore con la A maiuscola, capace di veicolare una visione intima e personale all’interno di una forma melodrammatica e grandiosa in grado di sbancare al botteghino. Firmando un film, cosa rara, che fosse insieme artistico e commerciale. In realtà si trattò se non di un’illusione – perché Il Cacciatore resta una pietra miliare di eccezionale valore –, del tipo di magia che accade una volta sola. Forte infatti dello straordinario successo, Cimino ottenne carta bianca dalla United Artists per realizzare subito dopo un progetto che lo ossessionava da un decennio, un western ambientato nel 1890 che raccontasse lo scontro tra coloni immigrati dell’est Europa e ricchi allevatori. I Cancelli del Cielo, appunto.

E l’esito fu tragico: il film, uscito nel 1980, sforò qualunque budget per la pignoleria, il gigantismo e la megalomania di Cimino, arrivando a costare, invece dei previsti dieci, circa 44 milioni di dollari che, a fronte dei soli due di incasso, decretarono in sostanza la fine della carriera del regista, bollato per sempre come un inaffidabile egomaniaco, nonché l’uomo che aveva fatto fallire la United Artist (che dopo poco, ma probabilmente per problemi pregressi, chiuse bottega).

Il cinema americano e il Vietnam

La caduta repentina di Cimino, che dopo quel rovescio realizzò solo altri quattro film sempre più invisibili, è però un’altra storia, o meglio è l’altra parte della storia, che oggi invece ci spinge a celebrare il ritorno in sala de Il Cacciatore. Il quale uscì nell’anno, il 1978, in cui il cinema americano aveva deciso finalmente, tre anni dopo la fine del conflitto, di cominciare a fare i conti con la guerra del Vietnam. Prima di allora l’unico film che aveva affrontato la questione era stato, da destra, il famigerato I Berretti Verdi di e con John Wayne.

I tempi erano ormai maturi per una riflessione più articolata, che si tradusse in un quartetto di film: I ragazzi della Compagnia C (che con la sua struttura bipartita, addestramento e guerra, anticipò Full Metal Jacket), Vittorie Perdute (lucido apologo con Burt Lancaster che metteva in luce i presupposti storici e politici alla base del conflitto), Tornando a Casa (che fruttò l’Oscar ai volti liberal dei protagonisti Jane Fonda e John Voight, in una pellicola che poneva il luce il dramma dei reduci) e, appunto, Il Cacciatore.

Il quale dei quattro resta l’opera più eterodossa: perché sì, il cuore del film è costituito dal lungo episodio centrale in cui i tre amici Mike, Nick e Steve (rispettivamente Robert De Niro, Christopher Walken, che vinse l’Oscar, e John Savage) partono per il Vietnam che ne segna indelebilmente le vite. Ma quel capitolo è solo una parte di un vasto affresco tripartito – prima, durante e dopo la guerra – in cui a definire e scandire tono e obiettivi della storia è la rappresentazione dall’ambiente umano e sociale da cui provengono i tre, una comunità di immigrati russo-ortodossi di Clairton, cittadina della Pennsylvania in cui tutti lavorano in acciaieria.

Il Cacciatore: l’uomo schiacciato dalla storia

Charles Elton nella sua recente ed esaustiva biografia dedicata a Cimino, The Deer Hunter, Heaven’s Gate, and the Price of a Vision, ripercorre integralmente le tappe che portarono alla realizzazione de Il Cacciatore. Nel quale la ricostruzione minuziosa del milieu cui appartengono i protagonisti costituì uno dei primi e più complessi motivi del contendere tra il regista e i produttori, britannici, della Emi Film – sempre nell’incontro alla Cineteca del 2005, Cimino volle ribadire, avendocela comprensibilmente a morte con gli studios americani, che “Hollywood non investì neanche un centesimo ne Il Cacciatore” (esagerando, dato che la Universal si impegnò a distribuirlo, finanziandolo al 50%).

Nella sceneggiatura originale, scritta da Cimino insieme a Deric Washburne – che per vedere riconosciuto il suo nome sui titoli di testa dovette fare causa al regista, non esattamente generoso coi suoi collaboratori –, il prologo a Clairton, con la cerimonia del matrimonio di Steve, occupava solo dieci pagine di script. Che però nella versione del primo montato di tre ore e mezza de Il Cacciatore da semplice introduzione si trasformò in una scena di massa di 75 minuti (poi in parte scorciati), capitale nell’economia del racconto, capace di definire le coordinate culturali e morali di quella comunità. Una sequenza che per complessità, grandiosità della messinscena, religione della verosimiglianza – Cimino voleva che matrimonio e party sembrassero “un documentario con attori, intimo come un filmino familiare, perciò le 250 comparse erano tutti autentici immigrati – può rivaleggiare con quella del ballo de Il Gattopardo di Luchino Visconti – una delle rarissime influenze che il regista ebbe l’onestà di ammettere.

Il vero tema de Il Cacciatore, perciò, non è la denuncia del conflitto del Vietnam – il film non offre come Tornando a Casa proclami apertamente antimilitaristi –, bensì l’epica dell’uomo comune schiacciato dalla storia. Infatti la guerra deflagra all’improvviso, con la forza di un’allucinazione, con un vertiginoso salto di montaggio da Clairton alla giungla dell’estremo Oriente, che strappa Michael, Nick e Steve al loro microcosmo perfettamente definito e li fa precipitare in un mondo caotico, violento e tragico. Ed è anche perciò un film tutto al maschile – l’unico personaggio femminile di qualche peso è quello interpretato da una giovanissima Meryl Streep –, dominato dal tema dell’amicizia virile in cui, scrisse Pauline Kael nella sua severa recensione sul New Yorker, la guerra funziona come un test sul coraggio maschile, sul modello di un romanzo vittoriano o di Hemingway.

“La roulette russa è una maledetta bugia”

Infatti a restare più di tutto nella memoria degli spettatori de Il Cacciatore sono le due grande prove virili con cui si misurano i protagonisti: le corpose metafore della caccia al cervo – il “colpo solo” che secondo Mike bisogna concedere con nobiltà all’animale – e della tortura della roulette russa, cui Mike, Nick e Steve vengono sottoposti una volta fatti prigionieri dai vietcong.

Quest’ultimo elemento, tratto da una sceneggiatura precedente intitolata The Man Who Came to Play, che Cimino e Washburn integrarono nel loro script, scatenò moltissime proteste. Il celebre corrispondente di guerra Peter Arnett disse che “in venti anni di guerra non c’è un solo caso riscontrato di roulette russa. La metafora fondamentale del film è semplicemente una maledetta bugia”. Una bugia che, oltretutto, poneva in una luce sinistra e unilateralmente razzista i vietnamiti. Sempre la Kael scrisse che Il Cacciatore dipingeva i vietcong “con quello stile orientale maligno e imperscrutabile con cui i film della seconda guerra mondiale raccontavano i giapponesi”. Il corrispondente di guerra australiano John Pilger, furioso, aggiunse che il regista aveva presentato “un popolo coraggioso e sofferente come dei bruti e stupidi orientali subumani”.

Il Cacciatore rischiò pure l’incidente diplomatico: alla proiezione del Festival di Berlino i delegati sovietici protestarono perché lo ritennero un “insulto” al popolo vietnamita. E alla notte degli Oscar i manifestanti mostrarono striscioni che denunciavano il razzismo e le bugie belle e buone veicolate dal film.

Il Cacciatore: la controversa ricezione dei critici

Anche la ricezione dei critici fu controversa.  Il Newsweek scrisse che “questo film pone Cimino al centro della nostra cultura cinematografica”. Per Vincent Canby del New York Times, il regista possedeva “la visione di un grande e originale nuovo cineasta”. Invece il padre della auteur theory statunitense, Andrew Sarris, sul Village Voice bollò Il Cacciatore come “poco chiaro, noiosamente criptico, misteriosamente isterico”, con “attori più interessanti dei personaggi che interpretano”.

C’è dell’altro. Su Harper’s Bazaar Tom Buckley definì il film una “fantasia sadomasochistica violenta e pornografica, con forti elementi di omosessualità”. Il tema torna più velatamente anche nella recensione di Pauline Kael, la quale scrisse che ne Il Cacciatorel’amore fisico e spirituale tra gli uomini è più rilevante di quello tra uomini e donne”, aggiungendo a proposito di Christopher Walken, che “i suoi grandi occhi, il mento affilato e gli zigomi sporgenti ricordano Falconetti ne La Passione di Giovanna d’Arco [Renée Falconetti, protagonista del capolavoro del muto di Carl Theodor Dreyer; ndr]; ha una delicatezza femminile senza effeminatezza”.

Peter Biskind, uno dei critici cinematografici più illustri degli Stati Uniti, collegando aspetti diversi, disse che “la sua miscela di omoerotismo represso, violenza e patriottismo abbraccia gli aspetti peggiori della cultura americana, quelli che hanno portato in primo luogo al Vietnam”. Cimino ha sempre restituito al mittente questa interpretazione, che si ritrova pure nella sottile lettura basata su alcuni segnali disseminati nel film del critico inglese Robin Wood, che legge in chiave omosessuale la relazione tra il più fragile Nick e Mike, il quale per salvare l’amico torna in Vietnam sottoponendosi nuovamente alla roulette russa, in una delle sequenze più strazianti e indimenticabili del cinema statunitense degli anni Settanta e non solo.

God Bless America

Comunque né le interminabili polemiche da destra e sinistra, né le lotte intestine per il montaggio finale del film – dai 210 minuti iniziali Cimino, che difese strenuamente ogni metro di pellicola, passò ai definitivi 183, rigettando una versione spuria realizzata a sua insaputa di 160 minuti – ebbero la meglio su Il Cacciatore, che anche grazie a un’intelligente campagna promozionale trionfò agli Oscar e incassò 50 milioni di dollari, inimmaginabili vista l’innegabile cupezza e malinconia che trasmette il film.

Segno del fatto che Il Cacciatore, forse persino al di là delle intenzioni del suo autore, fu recepito, insieme ad altre, come un’opera in grado di dare forma ai traumi del suo paese, passato attraverso una lunga stagione controversa. Il critico statunitense Christian Keathley, a tal proposito, ha parlato di un “ciclo post-traumatico” che ha caratterizzato il cinema americano degli anni Settanta, in cui “il trauma sofferto dai soldati in Vietnam e poi da tutta la nazione, si riflette in un ciclo di film i cui eroi, come quelli del Vietnam, sono manipolati e sfruttati, restando alla fine paralizzati per la consapevolezza della loro impotenza”.

I titoli cui fa riferimento sono, per citarne qualcuno, Un uomo da marciapiede, Cinque pezzi facili, Il candidato, Un tranquillo weekend di paura, Mean streets, La conversazione, Chinatown. Tutti accomunati da un’immagine crepuscolare del paese e dell’(anti)eroe protagonista, ormai incapace di compiere azioni esemplari e risolutive. Di questa temperie, Il Cacciatore costituisce quasi un ultimo capitolo riassuntivo, con i tre protagonisti segnati indelebilmente dal conflitto e dalla crisi dei positivi ideali del loro paese, simboleggiati dalla piccola ordinata comunità di Clairton da cui provengono. Persino Mike, il più solido ed equilibrato, una volta tornato a casa è preda di una irresoluta tristezza, cambiato al punto da non riuscire più a ingaggiare la sua aristocratica lotta con il cervo.

Il cacciatore è un film di allegorie poco intellettualistiche, che coinvolgono lo spettatore con la forza smagliante dell’evidenza. Il culmine è raggiunto nel sommesso finale, in cui gli amici di Nick intonano un canto funebre per l’amico morto, God bless America. Un epilogo anche questo assai criticato, secondo alcuni un’inopportuna parodia. E che invece, riprendendo il giudizio di Robin Wood, è un segno dell’“idealismo e del desiderio di credere” di Cimino, che a quel canto consegnava la sua elegia, ambigua ma non cinica, di un’America forse più sognata che reale.

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