Diabolik Chi Sei?, l’ultimo episodio di una trilogia che non ha saputo trovare un suo pubblico

C’è la storia delle origini del criminale nella terza puntata della saga dei Manetti Bros. Che stavolta si ispirano agli anni Settanta. Si conferma il raffinato gusto cinefilo. Ma si confermano anche i limiti di un cinema cerebrale e inattuale

Diabolik Chi Sei?

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Giunti al terzo episodio ormai gli esercenti hanno mangiato la foglia. Così non sorprende che Diabolik Chi Sei? venga destinato a minuscole salette d’essai per innamorati di guilty pleasures privatissimi e cinefili. Al primo giorno di programmazione il film raccoglie qualcosa meno di 4mila spettatori, confermando il trend calante di un progetto che sulla carta si annunciava di una certa presa popolare e che invece, per lo stile compassato dei Manetti Bros. – i quali, lo si legge dalle loro note di regia, hanno “cercato, ancora una volta, di essere fedeli al lavoro delle sorelle milanesi [le Giussani creatrici del personaggio, ndr], cercando semplicemente di trasferire al cinema la suggestione dalla pagina disegnata” – non è riuscito in sostanza a intercettare il pubblico.

Per cui dopo l’incoraggiante fiammata del weekend d’apertura del primo Diabolik – 800mila euro al botteghino –, il film finì per arenarsi su di un incasso di poco superiore ai due milioni e mezzo. Dimezzati al successivo Diabolik – Ginko All’Attacco!, 1,2 milioni circa, quando ormai gli spettatori avevano capito l’andazzo. Beninteso, ciò non significa che la trilogia non possegga i suoi pregi e che l’ultimo Diabolik Chi Sei? non riesca ad aggiungere dettagli alla raffinata operazione estetica dei Manetti. I quali, in un sottile gioco di rimandi e variazioni, arricchiscono il terzo episodio con ulteriori riferimenti al cinema di genere di cui sono cultori, grazie al passaggio da un’ambientazione anni Sessanta a una anni Settanta.

Subito risalta l’ispirazione al poliziottesco, con immancabili inseguimenti in automobile (più o meno) a rotta di collo e la presenza iconica di Barbara Bouchet, che rimanda a Fernando Di Leo. Però il poliziottesco certificava ancora negli anni Settanta la centralità dei generi nell’industria cinematografica italiana. Mentre il progetto di marca tutta teorica dei Manetti se funziona – egregiamente – come colta e filologica citazione di un universo mediologico tra fumetto e cinema d’altri tempi, non riesce però a confrontarsi con i gusti del pubblico contemporaneo.

In una forte coerenza di stile, Diabolik Chi Sei? ripete con piccole variazioni le caratteristiche dei primi due episodi. C’è sicuramente maggiore propensione all’azione, soprattutto perché, trasponendo in immagini l’omonimo albo numero 107 delle sorelle Giussani, il film introduce dei nuovi antagonisti, un gruppo di feroci rapinatori di banche, guidati dal repellente avvocato Manden (Massimiliano Rossi), che mandano all’aria un colpo progettato da Diabolik, e la loro presenza rende più movimentato il ritmo del racconto – sottolineato didascalicamente dagli effetti di fast forward e dall’uso del fumettistico split screen.

Però in buona sostanza restiamo sempre dalle parti del mondo sospeso, ingessato e rétro della immaginaria cittadina di Clerville, eterno teatro delle imprese del ladro mascherato. L’albo 107 viene scelto perché è quello in cui si svelano le origini del personaggio, in un inedito confronto tra Diabolik (Giacomo Gianniotti) e Ginko (Valerio Mastandrea) i quali, sulle tracce della banda di rapinatori, vengono entrambi catturati e costretti a una convivenza forzata. A quel punto il criminale, poiché quelli potrebbero essere gli ultimi scampoli di vita per entrambi, decide di raccontare all’ispettore la sua rocambolesca storia e le ragioni della sua carriera criminale (col Diabolik ventenne interpretato da Lorenzo Zurzolo).

Qui i Manetti si divertono ad aggiungere alla ricetta altre spezie cinefile, con le parti in flashback che fanno, dichiarano i registi, “un tuffo in dei non ben definiti anni 40, cambiando ancora una volta lo stile, in maniera ancora più repentina, passando a un immaginario espressionista rigorosamente in bianco e nero”, che occhieggia, anche per l’esotismo dell’ambientazione, a certo cinema hollywoodiano gotico e fantastico di quel decennio.

In Diabolik Chi Sei?, oltretutto, l’obbligata cattività di Diabolik e Ginko spinge le loro due compagne, Eva Kant (Miriam Leone) e la duchessa Altea (Monica Bellucci) ad allearsi per cercare di dipanare insieme la matassa, con un ribaltamento dei ruoli maschile e femminile in cui sono queste ultime a rendersi protagoniste dell’azione, a fronte di uomini ridotti all’impotenza – chissà che qui i cinefili Manetti non abbiano tenuto presente il caposaldo Riso Amaro di Giuseppe De Santis, antesignano del women’s film per la sua capacità già nei tardi anni Quaranta di dare dignità e centralità alle figure femminili in un cinema come quello italiano tradizionalmente maschile e maschilista.

Al netto quindi di certi pregevoli aspetti di confezione e stile, Diabolik Chi Sei? non fa che confermare le perplessità suscitate dai film che l’hanno preceduto. Una pellicola di formalismo esasperato, con una sua innegabile eleganza, sigillata dentro un gusto cinefilo introverso, inevitabilmente (volutamente?) inattuale, incapace di offrire a quel che resta dell’industria del cinema italiano indicazioni che lo aiutino a rilanciarsi.

A complicare lo scenario e a ricordarci quanto sia difficile individuare presunte ricette circa “ciò che piace al pubblico”, va ricordato che mentre il fumettistico Diabolik si rifugia in cinemini per appassionati carbonari, un altro film italiano tutto in bianco e nero e ambientato negli anni Quaranta, ovviamente C’è Ancora Domani di Paola Cortellesi, è giunto alla sua quinta settimana di sfracelli al botteghino, tenendo a bada il fiacchissimo blockbuster annunciato Napoleon e prossimo a scavalcare Oppenheimer tra i film più visti dell’anno. Difficile per i produttori trarne lezioni e affidabili strategie vincenti.

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