Diabolik – Ginko all’Attacco! ricalca alla lettera il titolo, punto esclamativo compreso, dell’albo numero 16 dell’epopea del criminale mascherato creato dalle sorelle Giussani. E il calco continua ad essere la filosofia che ispira i Manetti bros., che pure in questa seconda tappa della saga (che si concluderà con un terzo episodio, girato insieme a questo) hanno realizzato una trasposizione cinematografica che si uniforma fin troppo rispettosamente al fumetto. Così, pure il critico potrebbe limitarsi al copia e incolla della recensione del Diabolik dell’anno scorso, sottolineando ancora una volta la freddezza di fondo del film, che frustra lo spettatore alla ricerca di personaggi veraci cui affezionarsi, la sobrietà comportamentale che rimanda agli anni Sessanta o più propriamente all’immaginario degli anni Sessanta, la cerebralità distaccata dell’intera operazione.
Certo, qualcosa di nuovo, almeno nella confezione c’è in Diabolik – Ginko all’Attacco! Naturalmente la sostituzione del protagonista, non più Luca Marinelli ma Giacomo Gianniotti, somaticamente più vicino al fumetto. Anche se poi il vero protagonista è Ginko, il poliziotto ossessionato dal suo nemico, che s’inventa un astuto piano per catturarlo, allestendo un colpo su misura con una collezione di gioielli milionaria cui sa bene Diabolik non potrà resistere. La scelta è sicuramente felice anche perché, nei panni del commissario, Valerio Mastandrea è l’interprete più efficace di tutto il cast, l’unico capace di scavare dentro la bidimensionalità del personaggio regalandogli una forma di malinconia autunnale, trovando dentro l’esasperata rigidità del fantomatico mondo di Clerville (con la sua geografia immaginaria tra italiana, francese e svizzera) il sentimento della disillusione, quella di un uomo che sa di essere destinato a rivivere all’infinito l’amaro sapore della sconfitta.
Tra le novità di Diabolik – Ginko all’Attacco! c’è anche un bell’attacco in apertura in cui, sulle note della canzone originale interpretata da Diodato, danzano intrecciati i titoli di testa e un gruppo di ballerine che indossano i gioelli-esca di cui sopra, una sequenza ovviamente alla James Bond con una spruzzata di coreografie da varietà televisivo italiano anni Sessanta. Come più sviluppato è il senso dell’azione – certo, sempre troppo compassata per i gusti dello spettatore contemporaneo –, con il gioco a rimpiattino dell’inseguimento tra Ginko e Diabolik e l’ambigua Eva Kant (Miriam Leone) quale terzo vertice del triangolo. Si moltiplicano anche i personaggi, su tutti la duchessa Altea (Monica Bellucci) vecchia conoscenza di Ginko, e tanti, troppi comprimari che con la loro (forse voluta) recitazione ingessata rimandano sempre all’atmosfera compunta e dignitosa da vecchio sceneggiato Rai (che coproduce, con Rai Cinema, e distribuisce).
In ogni caso non muta la sostanza di una pellicola che fa l’effetto di un fumetto filmato, con la scansione delle inquadrature – i classici primi piani del letale coltello di Diabolik che sfreccia verso la sua vittima – a riprodurre quella delle vignette degli albi delle sorelle Giussani, con contorno di dialoghi legnosi e didascalici. Il che da un lato rischia di lasciare Diabolik – Ginko all’Attacco! senza un pubblico che possegga il tipo di raffinata sensibilità archeologica necessaria per apprezzarlo – esageratamente lento il ritmo, troppo rarefatta l’azione. E dall’altro fa pensare che l’effetto imbalsamazione dell’insieme sia l’obiettivo ricercato dai Manetti.
In fondo è stato André Bazin, padre della critica cinematografica moderna, a sottolineare in un suo celebre saggio sull’ontologia dell’immagine fotografica che alla base di tutte le arti plastiche e visive c’è la pratica dell’imbalsamazione, la mummia come sogno di un’arte capace, sono parole sue, di “fissare artificialmente le apparenze carnali dell’essere”, per “strapparlo al flusso della durata e ricondurlo alla vita”. Il sogno dell’arte di salvare l’essere mediante l’apparenza sottratta all’ingiuria del tempo. Un sogno che trova nella fotografia e poi nel cinema una forma persino più precisa, di “oggettività essenziale”, dice Bazin, perché frutto di “una riproduzione meccanica da cui l’uomo è escluso”, che non dipende più cioè dalle intenzioni inevitabilmente soggettive dell’artista, e che per questo produce qualcosa che non è un “calco approssimativo” dell’oggetto, ma “l’oggetto stesso, liberato dalle contingenze temporali”.
Letta così, emergerebbe ancora più chiaramente l’operazione teorica e cinefila dei Manetti, nella quale la calligrafia esasperata prossima all’imbalsamazione non ha come obiettivo la realtà, ma l’amatissimo Diabolik, restituito, attraverso un dispositivo cinematografico che si mette modestamente al servizio del fumetto, nella sua essenza intemporale, e richiamato a nuova vita. Lunga vita a Diabolik, allora. Ma piacerà al pubblico?