Dopo la morte di George Harrison una folla si radunò intorno agli Abbey Road Studios di Londra. In quel 29 novembre 2001 il mondo intero pianse quel chitarrista gentile dei Beatles, che all’esperienza con i Fab Four aveva alternato il suo percorso personale con ben 11 album in studio, il 12esimo dei quali sarebbe arrivato postumo un anno dopo. Dall’infanzia con Paul McCartney all’ingresso nei Quarrymen, fino ai Beatles e la spiritualità scoperta in India, George Harrison fu testimone e promotore di una delle rivoluzioni culturali più importanti della storia dell’uomo.
Era il 1998 quando il mondo intero scoprì che George Harrison aveva appena curato un tumore alla gola che lui stesso attribuiva al vizio del fumo. Il cantautore rassicurò i fan dicendosi completamente guarito. Seguirono anni non facili: un anno dopo entrò in gioco Michael Abram, uno squilibrato che nella notte del 30 dicembre si introdusse nell’abitazione di George per eliminarlo, letteralmente.
Abram era convinto che i Beatles fossero demoni e per questo accoltellò al petto il chitarrista, che fortunatamente non fu raggiunto nei punti vitali. Lo salvò Olivia Harrison, che lo aggredì con un attizzatoio. Nel 2001 arrivarono le prime notizie di un tumore al cervello che Harrison stava curando presso una clinica svizzera, oltre a quelle di un secondario tumore al polmone.
Il 29 novembre 2001 la morte di George Harrison arrivò quando lui era già immortale. Eccoci, quindi, a quel momento in cui la folla si radunò davanti agli Abbey Road Studios, dove tutto era iniziato e finito.
Eppure il cantautore non temeva la morte, come il medico new age indiano Deepak Chopra disse in un’intervista:
“Ha lasciato questo mondo come aveva vissuto: consapevole di Dio, senza paura della morte e in pace, circondato dalla famiglia e dagli amici”.
Come da sue volontà, George Harrison fu cremato e le sue ceneri furono sparse nel Gange, il fiume sacro indiano.