The Old Oak di Ken Loach è un inno disilluso alla forza della solidarietà. E del cinema

Annunciato come l’ultimo suo film, è la storia del gestore di un pub, sgomento per l’ostilità dei concittadini verso i rifugiati siriani. Loach ritrae il mondo dalla parte degli ultimi. Con uno sguardo memore della lezione neorealista

The Old Oak

INTERAZIONI: 131

Passato in concorso all’ultimo festival di Cannes, The Old Oak sarà, probabilmente, l’ultimo film della lunga carriera di Ken Loach, ormai 87enne, che ancora una volta collabora col suo sceneggiatore di fiducia Paul Laverty, autore di praticamente tutti i suoi script degli ultimi quasi trent’anni, a partire da La Canzone di Carla (1996).

Ed è proprio nell’ultimo decennio che la coppia ha trovato una misura precisa, fiera e indignata, in una trilogia che comincia con Io, Daniel Blake (che vinse tra molti mugugni dei critici la Palma d’Oro a Cannes), continua con Sorry We Missed You e termina adesso con The Old Oak. Loach è giunto a un cinema volutamente disadorno, che per parlare di un tempo confuso e demoralizzante – soprattutto se visto dalla parte degli ultimi, l’unica prospettiva che gli interessi – decide di affidarsi alla lezione neorealista che corrispose, nell’immediato secondo dopoguerra, a un’esigenza di ritorno alla realtà, prima che estetica, morale (o meglio le due cose insieme, secondo la celebre formula di Lino Miccichè del neorealismo come “un’etica dell’estetica”).

Io, Daniel Blake, attraverso la storia di un proletario alle soglie dei sessant’anni spazzato via dal mondo del lavoro (e in un certo senso dal mondo tout court) guardava scopertamente all’Umberto D. di Vittorio De Sica. Mentre Sorry We Missed You, storia di un uomo che ripone tutte le sue speranze nella proprietà di un furgone per le consegne, trasformandosi, secondo i dettami della gig economy, in un “imprenditore di sé stesso”, assomiglia molto alla storia dell’Antonio Ricci di Ladri di Biciclette, col camioncino al posto delle due ruote e un medesimo, sconfortante destino dietro l’angolo.

Il protagonista di The Old Oak, TJ Ballantyne (Dave Turner), assomiglia ancora una volta a Umberto D. – ha un fortissimo legame con una cagnetta che, come un piccolo miracolo, un giorno gli ha inconsapevolmente salvato la vita. A Durham, cittadina del nord est dell’Inghilterra, un tempo legata all’economia mineraria, gestisce un vecchio pub che sopravvive a sé stesso, frequentato sempre dalle stesse persone, altri proletari a disagio in un’epoca che li ha messi da parte – un avventore si lamenta del fatto che le agenzie immobiliari globali acquistano in massa e a prezzi stracciati, senza nemmeno vederle, le abitazioni della zona, facendo crollare il mercato e rendendogli ancora più difficile l’esistenza.

L’arrivo di alcuni rifugiati siriani offre il destro ai locali per canalizzare la frustrazione, nel continuo ciclo del risentimento destinato a chi è ancora più indifeso. Ne fa le spese Yara (Ebla Mari), giunta insieme alla famiglia – tranne il padre, imprigionato dal regime di Assad –, alla quale un balordo rompe la macchina fotografica cui tiene moltissimo. Ballantyne, uomo solo cui nemmeno più il figlio parla da anni, prende a benvolere la ragazza, sorpreso del fatto che i frequentatori del pub, amici che conosce da una vita, fomentino questo odio strisciante, aizzati pure dalla qualunquista comunicazione social.

A quel punto decide di fare qualcosa, mettendo in piedi una mensa per i bisognosi nel retrobottega del locale, chiuso da decenni e pieno delle memorie di un’altra epoca, simboleggiate dalle foto alle pareti che documentano il grande sciopero dei minatori del 1984 e un’unita, non solo sindacale, di cui si sono perdute le tracce. “Questa è solidarietà, non beneficenza”, sottolinea Ballantyne. E le parole sono importanti in The Old Oak, che riporta al centro del discorso termini in disuso come speranza, resistenza e appunto solidarietà. Il lieto fine, però, non è dietro l’angolo.

The Old Oak è attraversato da un sincero afflato umanista, desideroso di credere nella forza dei sentimenti – “Non bisogna vergognarsi di amare”, dice a Ballantyne la madre di Yara –, ma al tempo stesso non perde la consapevolezza di un pessimismo ben temperato, che dà al film il tono di un lamento funebre, che conduce a una conclusione non tonificante, cadenzata sull’ambiguità che è propria della realtà. Anche questo è un dettato stilistico della lezione neorealista, insieme all’utilizzo di tanti attori non professionisti e anche, in apertura, al ricorso al bianco e nero delle fotografie con cui Yara documenta la ruvida accoglienza degli abitanti di Durham, che intensificano la sensazione di cronaca in presa diretta che il film intende perseguire.

A chi taccia di schematismo e passatismo – stilistico e ideologico – l’ultimo cinema di Loach bisognerebbe rispondere proprio con il finale dimesso, in cui la speranza affidata alla forza dei sentimenti, che tutto sommato ancora esistono, non fa velo alla lucidità di chi, conoscendo gli uomini e la storia – quella in cui alle foto in bianco e nero dei solidali minatori degli anni Ottanta si sovrappongono le immagini di Yara dell’odio attuale verso gli stranieri – misura la distanza tra ieri e oggi e non si fa grandi illusioni.

È un cinema che non blandisce, che non restituisce il sorriso e perciò invita lo spettatore all’interrogazione sulla realtà e al bisogno di modificarla, prendendo posizione (altro elemento del dettato “militante” del neorealismo postbellico). E se qualche cedimento può esserci sul piano dello stile, è impossibile non aderire, anche commuovendosi, alla sobrietà, la sincerità di Ken Loach, che ancora si sforza di capire come funziona il mondo. E cosa è andato storto, fin dentro l’animo della classe sociale cui più tiene.

Continua a leggere su optimagazine.com