Daniel Blake (Dave Johns) è un carpentiere vedovo 59enne di Newcastle, che chiede il sussidio d’invalidità dopo un infarto. Gli viene negato. Allora è costretto a cercare lavoro, per non perdere il sussidio di disoccupazione, nell’attesa del riesame della domanda per l’invalidità. Daniel Blake si confronta con impiegati spesso sgradevoli, come una “professionista della sanità”, che decide del suo destino pur non possedendo qualifiche mediche.
Ma la cosa più difficile è misurarsi con l’anonimità della burocrazia: estenuanti attese telefoniche che sfociano in conversazioni con operatori di call center che ripetono formule di circostanza; e soprattutto l’obbligo di compilare moduli via internet, strumento completamente sconosciuto a Daniel Blake. L’unica forma di resistenza sta nella sua caparbietà e nella costante curiosità verso gli altri esseri umani. Nasce così l’amicizia con Daisy (Hayley Squires), giovane madre di due bambini che versa in difficili condizioni economiche. Daniel prende a volerle bene, e i due s’aiutano per come possono.
Io, Daniel Blake, vincitore della Palma d’oro a Cannes, è un film battagliero sulle sofferenze della gente comune, da sempre al centro degli interessi di Ken Loach e del fido sceneggiatore Paul Laverty. Ma è ancora di più un film sulla vecchiaia. Da un lato quella di Daniel Blake, reso improvvisamente obsoleto da una realtà velocissima, efficiente, sempre più tecnologizzata e burocratizzata. Dall’altro quella di Ken Loach, regista ottantenne che reagisce agli inediti sconvolgimenti di un’altra era di crisi nell’unico modo che conosce: attraverso un cinema antico, morale e umanista, che confida nella linearità delle storie, la forza partigiana del messaggio, un conflitto in cui sono riconoscibili oppressi e oppressori, ricchi ed emarginati.
Non ha senso criticare Loach sostenendo che il suo è un cinema di retroguardia, non sintonizzato sui linguaggi del nostro tempo. È precisamente quello che lui non vuole fare, nutrito da un’istintiva sfiducia verso i diktat della contemporaneità, che mette da parte uomini come Daniel Blake. Allora bisogna rifiutarne non solo la politica, ma anche l’estetica. E fare, come Ken Loach, un cinema consapevolmente “vecchio” sui vecchi, che se ha un modello, è Umberto D. La lezione neorealista in Io, Daniel Blake, è cercata: attraverso l’uso di attori non professionisti (i veri impiegati del collocamento); nella scelta di Dave Johns quale interprete, un comico, come le Magnani e i Fabrizi rosselliniani provenienti dal teatro di rivista; e anche stilisticamente, nelle inquadrature desichiane in cui, quando il protagonista esce dallo schermo, la camera resta ferma ad attendere le facce di gente comune che subentreranno.
Io, Daniel Blake appartiene a un cinema stilisticamente sorpassato. Eppure, nonostante certi snodi didascalici e melodrammatici – quel “demone del melodramma” di cui André Bazin si lamentava già a proposito del neorealismo –, è difficile non ritenere giusta la commozione che si prova guardando la scena della Banca del cibo, in cui Daisy apre una scatoletta perché muore letteralmente di fame. O la sequenza conclusiva, la preghiera laica in cui Daniel Blake rivendica il proprio “io” e i suoi diritti inalienabili di cittadino. E non di suddito.