Animali Selvatici, passato in concorso al festival di Cannes 2022, è il titolo italiano, dell’ultimo film di Cristian Mungiu, che in originale riportava un più secco ed evocativo R.M.N., che alla lettera sta per Risonanza Magnetica Nucleare – quella cui si sottopone il malandato patriarca Otto –, in cui naturalmente il gruppo di lettere rimanda scopertamente alla Romania teatro della vicenda.
Più precisamente è la Transilvania lo scenario scelto da Mungiu, il migliore e più rappresentativo regista della giustamente acclamata nuova ondata di autori del cinema rumeno, già vincitore di una Palma d’oro a Cannes con bellissimo 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, con all’attivo anche altri film come Un Padre, Una Figlia che hanno imposto il suo severo sguardo realista, sempre alla ricerca dello scavo morale dentro gli interrogativi di una contemporaneità che, vista dall’avamposto romeno, mostra tutte le fragilità sociali, economiche, identitarie della nuova Europa, non solo ad Est.
Perfetto si rivela in tal senso il contesto della Transilvania la quale, in virtù della sua lunga e complessa storia di terra di confine, al centro di contese tra regni diversi, presenta oggi un melting pot etnico – romeni, minoranze ungheresi e tedesche, rom – e anche religioso – cattolici, ortodossi, luterani, calvinisti –, immediatamente riflessi nel plurilinguismo del film.
Animali Selvatici è un film a lenta combustione, costruito come un caleidoscopio di volti e personaggi. La storia comincia dalla Germania, in cui – come tantissimi suoi connazionali che hanno abbandonato la Romania priva di opportunità dell’infinito processo di riconversione economica del post-comunismo – lavora Matthias (Marin Grigore), un uomo rude e fiero che perde l’impiego perché malmena un superiore che lo offende chiamandolo zingaro.
Tornato a casa, ritrova il suo mondo non meno complicato: il vecchio padre Otto (Andrei Finți) è fragile e malato; la moglie Ana (Macrina Bârlădeanu) non ha alcuna intenzione di riprenderlo con sé: il piccolo Rudi (Mark Blenyesi), suo figlio, soffre per un inspiegato trauma causato da qualcosa che ha visto nel bosco, e ha smesso di parlare. Matthias ritrova anche Csilla (Judith State), l’ex amante con cui cerca di rimettere in piedi la tresca: ma lei è una donna volitiva e indipendente, che in un paese senza opportunità è riuscita a diventare amministratrice di un’azienda di panificazione in forte espansione.
La possibilità di accedere a consistenti fondi europei obbliga l’azienda ad assumere nuovi lavoratori. Però vista l’esiguità del salario gli unici disposti ad accettare sono tre giovani singalesi. Il loro arrivo, benché si tratti di persone di indole assai mite, riaccende mai sopiti odii razziali, che giungono sino all’esplicita richiesta di allontanamento dei tre. Ovviamente le motivazioni alla base del rifiuto del diverso sono un florilegio di stereotipi (non siamo razzisti ma…), luoghi comuni (gli immigrati ci tolgono il lavoro), psicosi igieniste (questa è gente che non si lava, non può impastare il pane che mangiamo).
Mungiu riprende la riunione in cui la comunità del paese si confronta per decidere del destino dei singalesi in un lunghissimo piano sequenza di oltre dieci minuti ostinatamente a camera fissa. Lo fa proprio per rendere manifesta la povertà dialettica, la totale inconsistenza logica delle posizioni oscurantiste della maggioranza tutt’altro che silenziosa, la quale appunto è ostaggio di un’idea fissa, spaventata e oscurantista che si traduce in un punto di vista unico, irrigidito e immodificabile.
È questo probabilmente il colpo d’ala stilistico più consistente di Animali Selvatici, del quale però, sottraendoci al coro quasi univocamente entusiastico che ha accolto il film, dobbiamo però sottolineare alcuni notevoli difetti. È interessante che Mungiu qui cerchi soluzioni visive diverse dal suo usuale realismo oggettivante. Ed è chiara l’intenzione di applicare uno sguardo chirurgico che scandisce, esattamente come la risonanza cui si sottopone il patriarca Otto, un esame autoptico di un modello sociale incancrenito nelle sue impaurite ossessioni, che rifiutano tutto ciò che non corrisponda a presunte, inesistenti purezze etniche – che hanno come risultato la solita guerra tra poveri che non risale mai alle autentiche cause dei problemi.
Solo che Animali Selvatici, una volta descritto meticolosamente contesto e personaggi, manca completamente sul piano della sintesi, preferendo al realismo uno stile tra simbolismo e allucinazione che magari s’imporrà per il tono altisonante e apocalittico, ma che non riesce a trarre dal magma dell’intricata vicenda delle conclusioni coerenti.
Da un lato Mungiu punta su una dialettica che mescola uso del fuori fuoco – per cui non si capisce cosa esattamente veda Matthias nell’ultima scena – e del fuori campo – una serie di clangori che fanno immaginare sia in corso un linciaggio dei singalesi, ma è solo un’ipotesi. Dall’altro c’è uno scialo di simbolismi accumulati uno dopo l’altro, tra suicidi, la rivelazione che la paura del piccolo Rudi sarebbe frutto di una magica preveggenza – perché? – e incongrue apparizioni di animali nei boschi. Questo senza dimenticare il fatto che proprio i singalesi non diventano mai autentici personaggi, pure funzioni narrative ridotte quasi al silenzio, che come i neri dei vecchi film progressisti hollywoodiani, restavano sullo sfondo in attesa che l’eroe bianco li salvasse battendosi per i loro diritti.
Il finale di Animali Selvatici poi punta tutto sulla cifra dell’ambiguità e dell’allusione, a rivelare una collettiva crisi sociale, umana, morale che così dovrebbe apparire ancora più definitiva. Tutto ciò però, a nostro avviso, va a scapito di qualunque lucidità, e conduce il film nelle secche del nulla di fatto di un’opera che per puntare all’apologo sconsolato e corrucciato frana invece nella caricatura del film d’autore.