Quando sono arrivate le prime notizie sulla morte di Leonard Cohen, il 7 novembre 2016, tutti abbiamo risentito le note di una delle sue canzoni più profonde e sofferte. Hallelujah fu il risultato di un lungo processo sofferto, con un giovane Cohen in mutande su un tappeto del Royalton Hotel di New York, disperato per non riuscire a completare il testo di quella canzone. Lo raccontò lui stesso:
“Avevo riempito due blocchi degli appunti e ricordo che ero al Royalton Hotel seduto in mutande sul tappeto, mentre sbattevo la testa sul pavimento dicendomi: ‘Non riesco a finire questa canzone'”.
A Bob Dylan confessò di aver impiegato almeno due anni a terminare il brano, ma qualche anno più tardi ammise che la scrittura gli portò via almeno cinque anni fatti di cancellazioni, fogli appallottolati e lanciati nel cestino, ripensamenti e frustrazione. Perché tutta questa passione? Leonard Cohen non se la passava bene sia sul piano spirituale che su quello personale, ma allo stesso tempo teneva il suo sguardo sul mondo e ne osservava la lenta decadenza.
Hallelujah volle essere una risposta, o un resoconto di ciò che il cantautore osservava, ma non solo: se nelle prime due strofe troviamo i riferimenti biblici con Re Davide che cedette all’amore carnale con Betsabea, allo stesso tempo la dimensione spirituale è tutta nel trovare una musica che compiaccia Dio, o un dio qualunque, per elevare l’uomo dalla sua dimensione di elemento del creato a messaggero d’amore e pace.
La Sony, tuttavia, non credeva in questo brano, per questo Cohen lo inserì nel lato B di Various Positions (1984). Nel 1988, durante un concerto, tra il pubblico un John Cale estasiato ascoltò quel brano e chiese a Cohen l’autorizzazione di registrarne una cover. Nel 1991 uscì I’m Your Fan, una raccolta di cover di Leonard Cohen realizzate da diversi artisti dai Pixies a Nick Cave And The Bad Seeds. Il disco capitò tra le mani di Jeff Buckley, e il resto è una storia che conosciamo bene.