Oppenheimer, il cinema labirinto di Christopher Nolan è inadatto al ritratto biografico

La storia del fisico che costruì la bomba atomica si snoda come un rompicapo di incastri temporali. Da cui non emerge però il profilo di un uomo in carne ed ossa. Confermando che quello di Nolan è un cinema fatto più di idee astratte che di personaggi

Oppenheimer

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Christopher Nolan è un regista teorico, cerebrale, autore di un cinema fatto di idee astratte, che nei suoi film assumono preferibilmente la forma, di solito visivamente smagliante, di rompicapi, intriganti labirinti spaziotemporali. Non lo definirei però, un narratore la cui preoccupazione principale sia la costruzione di personaggi verosimili e a tutto tondo. I quali infatti raramente acquistano una passabile tridimensionalità, più simili a figure stilizzate, che danno corpo ai concetti di cui si fanno vettori. Basti pensare al penultimo Tenet, opera cervellotica quant’altre mai, in cui il protagonista si chiama, letteralmente, il Protagonista, corrispondendo a una pura funzione indispensabile allo sviluppo del racconto, privo d’una articolata psicologia, tutto risolto nelle azioni da compiere per mandare avanti la storia.

Per questa ragione nutrivo qualche perplessità di fronte alla scelta di Nolan di puntare con il suo nuovo film sul biopic, un genere così poco nelle sue corde, mirando alla ricostruzione di una delle personalità più controverse del ventesimo secolo, il fisico americano J. Robert Oppenheimer, responsabile capo del progetto Manhattan, grazie al quale, in una folle corsa contro il tempo e i tedeschi, gli Stati Uniti riuscirono a costruire la prima bomba atomica, che poi sganciarono nell’agosto del 1945 su Hiroshima e Nagasaki, l’evento che segnò la fine definitiva della Seconda guerra mondiale.

I timori hanno in verità preso forma sin dalla prima inquadratura del film, in cui un giovane Oppenheimer (Cillian Murphy, meritatamente promosso a protagonista) osserva il formarsi dei cerchi concentrici prodotti dalla pioggia in una pozzanghera con la trasognata intensità di chi pare già presagire in quel microscopico fenomeno naturale tutto il grandioso e tragico sviluppo della vicenda che porterà all’ordigno nucleare – infatti quella piccola cellula visiva ritornerà nel film, attentamente dissimulata e fusa in un’altra, a confermare che nulla accade o è mostrato per caso nell’architettura sempre stratificata del cinema nolaniano. Perciò, in quella prima scena apparentemente banale, non è tanto il disegno del carattere del protagonista a svelarsi poco a poco, quanto il meccanismo narrativo a innescarsi seguendo la sua logica.

Così sarà per tutto il film in cui, sebbene resti quasi sempre in scena, mostrato in primi e primissimi piani piuttosto simili – teso, smagrito, vagamente allucinato, come eternamente oppresso dal peso delle sue tribolazioni e sensi di colpa, già ben prima della costruzione della bomba – dell’Oppenheimer uomo, distante e quasi incomprensibile, paradossalmente, non viene rivelato quasi nulla. Certo qualcuno potrebbe dire che Oppenheimer resti sfuggente perché i film di Nolan sono rompicapi che si riflettono in personaggi rompicapo, enigmatici come enigmatica, più che mai, e piena di doppi e tripli fondi, è non solo la storia della bomba atomica, ma il significato stesso di un ordigno apocalittico strutturalmente paradossale – “paradosso” è una parola chiave del film: Oppenheimer sin dalla sua prima lezione spiega che la fisica quantistica è “un mondo di paradossi che non tutti possono accettare”, in cui la luce è contraddittoriamente sia particella che onda –, nel quale coincidono la massima potenza e la massima distruzione, l’ambizione prometeica dell’uomo e il suo autodistruttivo, incontrollabile istinto nichilista.

Di fronte a questo contorto mistero incarnato dalla bomba, nella quale convergono tutte le ambizioni e oscure pulsioni umane, ragione e comprensione vacillano. Così, come sempre più spesso nei film di Nolan, la questione diventa non tanto quella di capire il significato della trama, i ruoli e le motivazioni dei personaggi, quanto di lasciarsi andare al flusso fantasmagorico del racconto e delle visioni abbacinanti che si susseguono sullo schermo. La fisica quantistica infatti, viene detto, funziona come la musica, che capisci non leggendo lo spartito ma sentendola. Esattamente come in Tenet, la cui battuta più famosa recita: “Non cercare di capirlo, sentilo”. Perciò, per spiegare come le misteriose, apparentemente complicatissime leggi della fisica in realtà si manifestino con la chiarezza di una melodia, Nolan ce la fa sentire quella musica, sciogliendo le astruse formule matematiche nell’eleganza armonica di un verso di Eliot, una composizione di Stravinskij, un quadro di Picasso, in un parallelo corroborante tra creatività e teoria quantistica – Oppenheimer è anche un artista, insomma.

In un film di Nolan, naturalmente, non ci si poteva attendere che la biografia si srotolasse secondo una scansione lineare. Partendo dal documentatissimo volume premio Pulitzer di Kai Bird e Martin J. Sherwin, Oppenheimer. Trionfo e caduta dell’inventore della bomba atomica (in originale s’intitola American Prometheus), il regista costruisce un’aggrovigliata cronologia in cui si intersecano continuamente tre momenti della vita del protagonista. Il breve prologo ricostruisce l’apprendistato europeo del giovane Oppenheimer, che va a studiare nel vecchio Continente perché lì sta nascendo la moderna fisica teorica. Poi, nel 1942 viene posto dal generale Leslie Groves (Matt Damon) alla guida del Progetto Manhattan.

Nel 1954 della Guerra Fredda e della caccia alla streghe maccartista, l’ormai riconosciuta celebrità Oppenheimer viene sottoposta alle umilianti audizioni della Commissione per l’Energia Atomica, in cui riemergono le sue passate frequentazioni col partito comunista americano (cui anche la moglie Kitty [Emily Blunt] era stata iscritta), per insinuare che la sua ritrosia alla sperimentazione della bomba all’idrogeno derivasse non da perplessità di ordine scientifico (o morale), ma dal fatto che fosse un traditore. Infine nel 1959, il potentissimo segretario al commercio Lewis Strauss (Robert Downey jr.), influente membro della Commissione e grande sponsor della bomba H, viene ascoltato dal Senato americano circa i suoi rapporti (e le antiche ruggini) con Oppenheimer.

Il film finisce per svolgersi come un lungo (tre ore), denso e parlatissimo courtroom drama, nel quale il personaggio Oppenheimer resta elusivo e sfuggente, perennemente chiuso dentro le sue ossessioni e i suoi sensi di colpa – per la bomba, per il destino della sua vecchia amante Jean Tatlock (Florence Pugh). La sensazione di incomprensibilità dell’enigma Oppenheimer è amplificata dalla lambiccata struttura a labirinto e a gioco di specchi delle sovrapposizioni temporali, nonché dal numero esorbitante di protagonisti con ruoli talvolta essenziali eppure in termini di presenza sullo schermo minimali.

L’impressione è che ognuno di essi più che a un carattere in carne e ossa finisca per corrispondere alla funzione narrativa da svolgere: il generale Groves è l’all american boy sbrigativo ma onesto e tutto d’un pezzo, il politicante Strauss è il mefistofelico burattinaio, Teller (Bennie Safdie) è lo scienziato ambizioso senza scrupoli morali, Jean Tatlock illumina il lato passionale ma oscuro di Oppenheimer. E a dimostrazione di come questa galleria di volti non sempre venga gestita perspicuamente, valga per tutti il personaggio interpretato da Rami Malek: è fondamentale per lo scioglimento della vicenda, ma è presente talmente poco sullo schermo che lo spettatore fatica a capire come e perché si comporti in un certo modo.

Che poi il personaggio Oppenheimer rimanga indefinito, avvolto in un’ambiguità reticente e sfocata lo dimostra il fatto che, di volta in volta, venga paragonato: a un “Prometeo americano”, come gli dice Niels Bohr (Kenneth Branagh); a un martire che affronta il calvario mortificante del processo per espiare i suoi peccati, come sostiene la moglie; a “Morte, il distruttore di mondi”, come si autodefinisce il fisico, mentre legge la Bhagavad Gītā durante un amplesso con l’amante. Ed è, quest’ultima immagine, quasi una versione bignami di quel legame tra eros e thanatos di cui la bomba atomica è espressione manifesta, come ci aveva spiegato con ben altra acredine e sottigliezza quello che resta il film definitivo su ciò a cui simbolicamente rimanda “l’ordigno fine del mondo”. E ovviamente stiamo parlando del Dottor Stranamore.

Anche quando Oppenheimer dice che “l’atomica è una terribile rivelazione della potenza divina”, Nolan sembra rimandare al capolavoro di Kubrick, nel cui finale Stranamore reagisce alla detonazione nucleare riacquistando l’uso delle gambe, a testimoniare il mistero, quello sì incomprensibile, prodigioso, della bomba, che nello scatenarsi di un’energia apocalittica sbriciola qualunque logica e ci conduce dalle parti della mistica, nella quale la distruzione totale e l’atto di fede, il buco nero dell’irrazionalismo nichilista e il miracolo vanno a braccetto.

Ma questa densità concettuale, il verboso Oppenheimer la lambisce appena, accontentandosi di un immaginario e di raccordi di montaggio più scolastici. Se il protagonista parla del buco nero immediatamente vengono mostrati dei vischiosi, cupi vortici che risucchiano ogni cosa; e i riferimenti alle particelle subatomiche subito si traducono in brevi immagini subliminali, caleidoscopiche e astratte, che volenterosamente possono essere interpretate come esempi della visionarietà del cinema di Nolan.

Per non parlare della prevedibile allegoria del gran teatro della bomba come messinscena cinematografica. Il luogo in cui ideare e far esplodere il primo ordigno sperimentale viene stabilito nel deserto di Los Alamos, in cui viene edificata una città autosufficiente. Quando Groves, una volta vinta la guerra, snocciola le cifre del progetto Manhattan – tre anni, due miliardi di dollari spesi, quattromila persone coinvolte –, pare snocciolare i numeri di un kolossal epico, comparse comprese. E quando la moglie Kitty visita per la prima volta la cittadina costruita nel nulla, commenta “ci manca solo il saloon”, per farci capire che si tratta del perfetto set di un western scandito, con buona pace dell’ambiguità costantemente perseguita, dai buoni e i cattivi dei film di una volta.

La divisione tutto sommato manichea si riflette infatti nel meccanico, continuo passaggio dal colore del mondo di Oppenheimer al bianco e nero della parte di cui è protagonista il villain Strauss, che simboleggia lo schematismo senza sfumature del maccartismo. E lampanti sono altre metafore: come la pornografica, inquisitoria audizione davanti alla prezzolata Commissione per l’Energia Atomica, durante la quale Oppenheimer s’immagina di copulare nudo con Jean davanti a tutti. Nonostante la magniloquenza dell’IMAX 70mm e il lavoro certosino della fotografia di Hoyte van Hoytema (non ispirata, però, come in Dunkirk), il film non sembra francamente possedere la visionarietà di altre opere di Nolan, riproducendo certe caratteristiche tipiche del suo cinema fatto (molto) di teoria e (poco) di quella realtà che è la cosa che più dovrebbe riguardarci.

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