Passages, l’amore al tempo delle passioni fragili

Un triangolo amoroso con al centro un protagonista fluido, un regista che abbandona il compagno per una donna. Il racconto di una generazione sentimentalmente immatura, che sconta uno sguardo superficiale

Passages

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Passages, uscito in pieno agosto distribuito da Lucky Red in collaborazione con la piattaforma Mubi, costituisce il più recente tassello, con anteprima mondiale al Sundance, della filmografia di Ira Sachs, regista statunitense apertamente gay la cui produzione è focalizzata principalmente su tematiche queer, con qualche recente sconfinamento in altre direzioni – il ritratto di attrice malata terminale Frankie (con Isabelle Huppert, in concorso a Cannes 2019) o il delicato racconto di un’amicizia adolescente di Little Man (2016).

Girato in Francia con un cast europeo prestigioso, Passages ritorna al cuore delle predilezioni di Sachs, che costruisce un triangolo di passioni ed erotismo programmaticamente fluido, al centro del quale campeggia Tomas (Franz Rogowski), un regista che, la sera in cui festeggia la fine delle riprese del suo ultimo film, tradisce il marito Martin (Ben Whishaw) con una ragazza incontrata al party, Agathe (Adèle Exarchopoulos).

Frastornato dall’esperienza per lui inedita, Tomas immagina che l’apparente avventura di sesso di una notte possa rivoluzionargli l’esistenza. Abbandona repentinamente Martin e si trasferisce a casa della donna, con cui pianifica una vita di coppia che magari, chissà, preveda anche il concepimento di un figlio (idea che Martin aveva sempre accarezzato, incontrando l’opposizione del compagno). Il nuovo equilibrio si rivela però assai labile, come l’emotività di Tomas, che cerca di tornare da Martin – il quale nel frattempo ha preso a frequentare uno scrittore –, senza però escludere del tutto dalla sua vita Agathe.

Passages vuole essere un melodramma sull’amore al tempo delle passioni fragili della società contemporanea, che le ultime generazioni – almeno nel modo in cui le descrive Ira Sachs – vivono i propri sentimenti con una apertura e una disponibilità al cambiamento perenne, dando vita per ciò stesso a storie instabili, che vivono dell’esaltazione di un istante, faticando a solidificarsi in cambiamenti di lunga durata, come testimoniato dal ritmo sussultorio di Tomas, che pencola come un tergicristallo tra i suoi due amori, con una incontrollata frenesia resa dai suoi andirivieni senza meta in bicicletta.

Il film non costruisce – probabilmente non mira a costruire – il ritratto a tutto tondo di un carattere, ma si limita a registrarne i gesti. Come se, una volta prosciugate e rese quasi imperscrutabili (inesistenti?) le ragioni dei protagonisti, in scena non restasse che la radiografia dei corpi e dei loro trasalimenti, che paiono derivare più da capricci del momento che da scelte ponderate. D’altronde, nell’unica sequenza in cui si vede Tomas in azione sul set, la sua direzione degli attori è tutta concentrata sulla loro postura, suggerendo come scendere da una scala o come tenere in mano un bicchiere. Così funziona anche la regia comportamentale di Sachs, che infatti compone insieme a Mauricio Zacharias una sceneggiatura scheletrica di dialoghi minimali, che non mira certo allo scavo psicologico.

Il triangolo amoroso incede al ritmo dei legami fisici tra i personaggi, negli amplessi che, seppure espliciti, non riescono mai a raggiungere l’intensità espressiva del cinema di un Kechiche (cui inevitabilmente si finisce per pensare, vista anche la presenza iconica della Exarchopoulos de La Vita di Adele), molto più radicale nel mostrare come il desiderio possa sagomare e travolgere l’esistenza. Sachs invece ha lo sguardo morbido del cinema indie, trattiene sempre il mélo senza mai farlo esplodere. Si limita a una ricognizione dei comportamenti che non si fa mai scandaglio al calor bianco delle emozioni dei personaggi, i quali sono ripresi mentre fanno sesso a camera fissa, a una distanza di sicurezza che non è ipocritamente puritana, ma nemmeno rischia la franchezza della flagranza, attenendosi a uno sguardo che resta nei binari di un’ortodossia mainstream.

La storia di Passages si sviluppa allo stesso modo in cui gli scolari dell’insegnante elementare Agathe scrivono i temi su come hanno passato il weekend: un elenco piattamente descrittivo ed esteriore dei fatti, i quali non rimandano mai a una dimensione più intima, meditata e sofferta che aiuti a comprendere il significato delle azioni e i moventi sottesi ai gesti. Il rapporto tra Agathe e Tomas è filmato con la stessa laconicità: i due non posseggono parole capaci di dare forma e senso alla loro relazione, tutto si risolve nel qui ed ora del loro stare insieme. Non a caso più d’una volta la loro reciproca afasia è risolta dall’uso delle canzoni, che danno vicariamente espressione a sentimenti che loro, in particolare Tomas, non riescono né vogliono inquadrare con lucidità.

Per cui non può che ridursi a un dialogo tra sordi il confronto tra Tomas e i genitori di Agathe, i quali lo sottopongono a domande certo indiscrete, però tutto sommato comprensibili, che manifestano l’apprensione protettiva per la figlia e anche lo smarrimento di due persone adulte che faticano a maneggiare la fluidità indossata con naturalezza dalla generazione successiva – per Agathe infatti il passato di Tomas non fa questione.

Resta solo da decidere se questa sensazione di superficialità che Passages restituisce sia un limite del film o invece il frutto di una intenzione voluta, di un racconto cioè che mima stilisticamente la superficialità del mondo che intende descrivere. Il nostro giudizio propende decisamente per la prima ipotesi, perché il film di Sachs resta a livello di abbozzo. Le idee sono anche intriganti ma restano sulla carta, in primo luogo per colpa di un protagonista fuori fuoco, piccolo egocentrico immaturo dedito al piacere che fa del male quasi a sua insaputa, regista sul set ma assai meno della propria esistenza. Per rendere Tomas un proverbiale simbolo dei nostri tempi sarebbe stata necessaria la profondità di sguardo, la chirurgica sincerità che solo la vera letteratura e il vero cinema posseggono. Di cui qui in questo film soffice, corretto ma eufemistico, non c’è traccia.

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