La piattaforma del cinema d’autore Mubi da luglio rende disponibili tre film di Kelly Reichardt. Una bella opportunità per conoscere una delle autrici autenticamente indipendenti del cinema americano, 57enne, 7 lungometraggi all’attivo nessuno dei quali ha mai ottenuto una distribuzione in sala in Italia. Gli appuntamenti sono dal 5 luglio con Wendy and Lucy (2008), dal 9 con il western First Cow (2019), dal 18 con Old Joy (2006).
La Reichardt è nota ai frequentatori dei festival, il suo primo western Meek’s Cutoff (2010) e l’inusuale thriller Night Moves (2013) erano entrambi passati in concorso alla Mostra di Venezia. Il suo resta comunque un nome ancora per addetti ai lavori, che attende di essere scoperto da un pubblico più ampio, sebbene il penultimo Certain Women (2016) potesse contare su un cast femminile di primo piano, Laura Dern, Michelle Williams, Kristen Stewart, e di un notevole apprezzamento critico – tra i migliori film dell’anno dei Cahiers du Cinéma.
First Cow, disponibile da oggi, è un’opera in linea con il suo stile minimalista, sommesso e privo di impennate, che predilige i tempi morti, l’osservazione minuziosa di dettagli, volti, oggetti, l’interazione tra spazio e personaggi – fondamentale in un’opera che, per quanto segnata da un trattamento eterodosso del racconto, è pur sempre un western, genere scandito da geografia, luoghi, paesaggi naturali –, che segue il ritmo oggettivo concreto dei fatti piuttosto che puntare sui rivolgimenti sorprendenti dell’arco narrativo.
Il film è girato in formato 4:3, che con le sue “modeste” dimensioni disattiva immediatamente la monumentalità delle storie distese sugli scenari vasti e spettacolari della frontiera. Siamo nei primi anni dell’Ottocento in Oregon – luogo tipico del cinema della Reichardt, già battuto in Night Moves, Old Joy, Wendy and Lucy, Meek’s Cutoff. Quest’ultimo era un western in cui emergeva la centralità dell’universo femminile, stavolta i protagonisti sono invece due outsider, un cuoco dall’aria tranquilla e i modi gentili, “Cookie” Figowitz (John Magaro), che ha deciso di accodarsi ai trapper che attraversano il paese in cerca di fortuna, e un avventuriero cinese, King-Lu (Orion Lee) in fuga da un gruppo di immigrati russi.
Tra i due nasce un’amicizia e perciò decidono di lavorare insieme, sfruttando l’indubbio talento culinario di Figowitz e la capacità di pensare in grande di King-Lu. Al quale però, per essere un autentico imprenditore difetta un elemento fondamentale, il capitale di partenza. Allora la soluzione non può che essere legata a un piccolo sotterfugio criminale: mungere nottetempo l’unica mucca che un facoltoso proprietario terriero di origini britanniche (Toby Jones) ha fatto portare nell’Oregon per potersi godere il suo rituale da gentleman inglese del tè macchiato col latte. Latte col quale Cookie prepara dei gustosi pasticcini che vanno letteralmente a ruba e che, ironia della sorte, hanno come più affezionato cliente proprio il ricco fattore, al quale fanno scattare nostalgiche memorie della madrepatria. Questo almeno fino a quando l’uomo non scopre l’inganno, che conduce a un repentino desiderio di vendetta.
- Toby Jones (Actor)
- Kelly Reichardt (Director)
Kelly Reichardt ha scritto First Cow insieme a Jonathan Raymond (già sceneggiatore di Wendy e Lucy, Meek’s Cutoff e Old Joy, altra storia, ma contemporanea, di amicizia maschile), tratto dal suo romanzo The Half Life. L’opera ha una struttura volutamente lenta e svagata, costruita sulla ripetizione di alcune situazioni e dalla progressione narrativa impercettibile. Eppure sotto questa superficie pacata da piccola storia intimista piuttosto bizzarra c’è l’ambizione dell’affresco, che si affida al genere fondativo per antonomasia dell’identità americana per decostruirlo dall’interno, ponendo alla prova dei fatti il mito della frontiera, della natura selvaggia e della virilità dei pionieri che la domano, del destino manifesto di un paese indirizzato a costruire attraverso la volitività e lo spirito d’iniziativa dell’uomo la sua storia di grande potenza.
“L’uccello fa un nido, il ragno una ragnatela, l’uomo un’amicizia”, recita il pensiero del poeta romantico William Blake, tratto dai Proverbi dell’Inferno, citato in apertura del film. Ed è questo il cuore del racconto, la capacità dei due uomini di creare una relazione umana profonda all’interno di un contesto rude, pragmatico e antisentimentale. La bontà di carattere estranea al contesto di Cookie è evidente dalle prime sequenze di First Cow, in cui lo si vede cogliere con delicatezza dei funghi nel bosco e, con la medesima accortezza, aiutare una lucertola impigliatasi nel fogliame. E anche la dimestichezza quasi affettuosa che la mucca dimostrerà verso di lui sarà l’elemento che insospettirà il proprietario terriero.
Il film parte da un prologo in cui, al giorno d’oggi, una donna che s’è inoltrata nei boschi insieme al suo cane s’imbatte in due scheletri in posizione ravvicinata, quelli di Cookie e King-Lu. Riaffiorando alla superficie, le spoglie attestano come certe questioni, la sopraffazione dei più deboli, dei poveri e dei diversi – discreto e sfumato, il sottotesto omoerotico della relazione tra i due protagonisti è un’altra traccia possibile del film – costituiscono uno scandalo non superato e destinato a ripresentarsi continuamente sotto i nostri occhi. Il ritrovamento casuale di quella ossa riannoda un atto di sopruso perpetrato duecento anni prima alla contemporaneità, suscitando qualche riflessione sulla pasta di cui è fatta la civiltà americana.
Tutto questo però è soltanto suggerito attraverso uno stile che rifugge da proclami, messaggi, denunce posticce, e che s’affida soltanto al respiro della forma e del linguaggio cinematografico, che si fanno, il più possibile implicitamente, vettori delle tesi di fondo della vicenda. Nella quale non si nega mai, insieme alla durezza d’un modello di vita brutale ed elementare, anche la bellezza e il fascino degli scenari di una natura intoccata, in un luogo, come viene detto, in cui “la storia non è ancora arrivata”.
First Cow così non assume mai un tono da goffa requisitoria anticapitalista e procede nella direzione di un racconto né semplicistico né unilaterale, con una forte pietas verso i personaggi e l’attenzione a una realtà ritratta nella sua complessità. Un film che invita lo spettatore a guardare pazientemente e a fondo in sequenze talvolta quasi immerse nell’oscurità – che dell’ambiguità del reale si fanno metafora –, le quali chiedono non un osservatore passivo bensì un interprete attivo e volenteroso. Così è per il finale sospeso che, senza spiegare didascalicamente nulla, pone i corpi esausti dei due amici nella posizione esatta in cui verranno ritrovati duecento anni dopo, in un legame ormai reso eterno, suggellato tanto dalla delicatezza del sentimento reciproco quanto dalla crudeltà della violenza.