Indiana Jones e il Quadrante del Destino, alla ricerca di un cinema che non esiste più

Il quinto e ultimo episodio della saga dell'archeologo avventuriero con Harrison Ford è un racconto intriso di nostalgia. Movimentato e divertente. Ma anacronistico

Indiana Jones e il Quadrante del Destino

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Indiana Jones e il Quadrante del Destino, quinto e sicuramente ultimo episodio della saga (Harrison Ford ha ormai compiuto ottant’anni, per cui…) arriva nei cinema dopo un passaggio/omaggio all’ultimo Cannes, dove l’attore è stato insignito anche di una Palma d’oro onoraria. È il primo film del ciclo senza Steven Spielberg alla regia, il quale comunque sovrintende all’operazione da produttore insieme a George Lucas, co-creatore del personaggio dell’archeologo avventuriero. A dirigere c’è il veterano e versatile James Mangold, pure cosceneggiatore, che sulla base di una sua certa predilezione per i personaggi crepuscolari (vedi Logan), ritrae un Indiana Jones al tramonto e in disarmo sul finire degli anni Sessanta, visto l’arrivo della pensione – gli studenti ormai lo seguono svogliatamente, son lontani i tempi delle studentesse che gli lanciavano sguardi proibiti – e la causa di divorzio in atto.

A risvegliare i mai completamente sopiti entusiasmi ci pensa la figlioccia Helena Shaw (Phoebe Waller-Bridge), che lo riporta lungo le tracce di un manufatto leggendario, il quadrante del destino di Archimede, che secondo Basil (Toby Jones), suo padre ormai scomparso e grande amico di Indiana, possedeva il potere di localizzare varchi temporali (insomma, una macchina per viaggiare nel tempo). La vicenda naturalmente diverrà molto più ingarbugliata: perché Archimede divise prudentemente lo strumento in due, e quindi per ricomporlo è necessario reperirne tutte le parti, in un viaggio tra Nord Africa e Siracusa; e anche perché forse Helena non è esattamente il tipo della ricercatrice disinteressata. Il vero problema comunque è che sulle tracce del quadrante c’è anche il dottor Schmidt (Mads Mikkelsen), astrofisico tedesco che lavora per la Nasa, il quale però, in realtà si chiama Jürgen Voller, scalmanato nazista che vuole impossessarsi del reperto per riscrivere nel modo che si può immaginare la storia della Seconda guerra mondiale.

Indiana Jones e il Quadrante del Destino è quindi un film sulla manipolazione del tempo. Da lì parte il film, nel prologo ambientato durante il secondo conflitto nel 1944, quando per la prima volta indiana Jones e Voller si incontrano, in una rocambolesca caccia ai reperti archeologici piena di soldati nazisti. Ed entrambi, Ford e Mikkelsen, sono sottoposti all’ormai canonico processo di ringiovanimento digitale tramite deaging. A conferma del fatto che l’intervento sulla dimensione temporale è una vocazione tipica della settima arte, che permette di riscrivere il tempo e i suoi effetti, reintegrando come accade qui la giovinezza (tutta inventata) dei protagonisti.

D’altronde tutta la saga di indiana Jones verte intorno alla dimensione del tempo. Soprattutto perché, sin dal primo leggendario episodio del 1981, I Predatori dell’Arca Perduta, l’impalcatura narrativa era pensata come un affettuoso tributo ai film e serial d’avventura degli anni Trenta e Quaranta, guardando anche alla letteratura popolare pulp e weird. La creatura inventata da Lucas e Spielberg puntava quindi a un gusto dichiaratamente nostalgico e rétro. E cos’è appunto il sentimento della nostalgia se non un continuo confronto-negoziazione con la sfera del tempo? In cui l’omaggio al passato, in uno spirito di riproposizione che spesso tende alla calligrafia, tradisce il desiderio di riattivare se non proprio i vecchi tempi, almeno le emozioni che i vecchi tempi erano in grado di suscitare.

Tutto questo nel primo Indiana Jones in particolare funzionava a meraviglia, anche perché, all’altezza degli anni Ottanta erano ancora abbastanza vicini cronologicamente –  un quarantennio prima – i modelli narrativi cui s’ispirava il film e anche il periodo storico, l’epoca del nazismo, in cui erano ambientate le mirabolanti peripezie. Funziona invece molto meno questo miniciclo più recente cominciato nel 2008 con Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo, in cui l’operazione nostalgia diventava più scoperta e pedante, come dimostrava anche la scelta di Spielberg per quel film di riprodurre la stessa grana dell’immagine de I Predatori dell’Arca Perduta. La sensazione trova conferma in questo Indiana Jones e il Quadrante del Destino che, come il predecessore, attiva una nostalgia al quadrato, nella quale alla nostalgia strutturale su cui si fonda costitutivamente il personaggio dell’archeologo si somma la nostalgia di riporto per gli episodi di quattro decenni prima, quando Indiana Jones era giovane e scattante.

Questa ingombrante zavorra stende inevitabilmente una patina antichizzante sul film, la quale rilancia sullo spettatore un’impressione di artificiosità, che non gli permette di partecipare davvero alla storia, ricca di riferimenti che appartengono ai film che guardavano Lucas e Spielberg ragazzini, i quali significano ben poco agli occhi dei ragazzi di oggi. Intendiamoci, i personaggi della saga di Indiana Jones sono stati sin dall’inizio bidimensionali, immersi in un’ambientazione fatta di eroismi ed esotismi di maniera, inverosimili già negli anni Ottanta. Però il pubblico di quel decennio era ancora più o meno in grado di riconoscere significato e provenienza di certi codici, generi e citazioni impiegati, il che gli permetteva di sospendere il senso di incredulità e lasciarsi trascinare dal racconto di cui comprendeva presupposti storici e segni culturali.

Quarto e quinto episodio della saga, però, propongono un immaginario che per gli spettatori di oggi è diventato difficilmente interpretabile. Magari il pubblico si diverte nel guardare singole sequenze – come lo smagliante inseguimento in metropolitana a cavallo -, ma è difficile che colga il senso complessivo dell’operazione e i riferimenti interni, sepolti sotto un doppio strato sovrapposto di nostalgie. Il che non gli permette di immedesimarsi e partecipare fino in fondo a storie che gli sembreranno ingenue, inattuali e inverosimili, fondate su peripezie d’altri tempi a base di tombe, scheletri, passaggi segreti e codici cifrati.

Indiana Jones e il Quadrante del Destino è un film piacevole ma anacronistico, sigillato dentro meccanismi di racconto imperscrutabili per i nuovi pubblici. Probabilmente piacerà – se piacerà – solo a spettatori di mezza età, nei quali riattiverà memorie prettamente cinematografiche, permettendo loro di riassaporare sensazioni invecchiate di quarant’anni, in un perfetto circuito nostalgico chiuso asfitticamente in sé stesso. Perciò che Indiana Jones in questo episodio sia anziano è simbolicamente corretto, perché ormai datato è l’intero vocabolario narrativo della pellicola. E infatti, non a caso, il protagonista si sente fuori posto in un’epoca di cui non comprende più le coordinate, e alla quale vorrebbe sottrarsi – non diremo come – proprio grazie alla manipolazione del tempo consentita dal quadrante di Archimede.

Spielberg questo film non l’ha né scritto né diretto. Eppure, per certi versi assomiglia molto al suo recente West Side Story , opera impeccabile ma scritta nella lingua morta del cinema classico, anacronistica perché bisognosa di un tipo di orizzonte culturale e di pubblico che non esiste più. A proposito di quel film mi chiedevo se, nel girarlo, Spielberg più che allo spettatore contemporaneo non stesse pensando a uno spettatore d’altri tempi, molto somigliante allo Spielberg ragazzino che il musical di Jerome Robbins e Robert Wise l’aveva visto al cinema all’inizio degli anni Sessanta. Vale più o meno la stessa cosa con Indiana Jones e il Quadrante del Destino, oggetto ineluttabilmente vintage, che ci consegna la bellezza e il mistero di un altro modo di fare cinema e di un altro mondo del cinema. Entrambi brillanti e sofisticati, ma ormai fuori tempo massimo. Quel mondo il pubblico di oggi non saprebbe come abitarlo. Indiana Jones, al contrario, vorrebbe sfuggire al mondo di oggi, e restare per sempre nel passato.

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