Toro Scatenato (Raging Bull, 1980), tornato eccezionalmente sul grande schermo tra l’8 e il 10 maggio in una scintillante versione in 4k, inizia con un’eleganza elusiva, tutto il contrario della furia cieca cui da spettatori verremo sottoposti per tutta la durata della pellicola. Sull’intermezzo della Cavalleria Rusticana di Mascagni, una figura di pugile, solitario – il Jake LaMotta interpretato da Robert De Niro – si muove a rallentatore, figurina danzante minuscola su di un ring enorme (Scorsese ne utilizzò uno volutamente ben più grande del normale), che lo fagocita e minimizza. Le corde nodose del ring, gigantesche in primissimo piano, delimitano un recinto cui il protagonista non può e potrà sfuggire. Sebbene quei margini, prima che fisici, siano tutti nella sua testa, un confine, e una condanna, in buona sostanza autoinflitti.
Toro Scatenato per Scorsese non è una sfida di tipo realista: è un’ossessione vissuta come un’ultima spiaggia, lui che attraversava il periodo personale più duro della sua vita, dopo il fallimento di New York, New York, che gli era bruciato tantissimo, e l’abbandonarsi alla tossicodipendenza che lo porterà sull’orlo della morte. “Il fiasco di New York, New York era stato accolto con una sorta di esultanza a Hollywood. E io mi lasciai completamente andare, dicendo: ‘Su avanti, scendiamo all’inferno, vediamo cosa succede’”.
Sarà proprio su di un letto d’ospedale che Roberto De Niro lo incalzerà ancora una volta. Già ai tempi di Alice non abita più qui aveva dato da leggere all’amico di sempre, con cui aveva già girato capolavori come Mean Streets e poi Taxi Driver, l’autobiografia di Jake LaMotta, sicuro che lì ci fosse una grande storia da raccontare e un ruolo perfetto per lui (infatti vincerà il suo secondo Oscar, il primo da protagonista dopo quello da non protagonista per Il Padrino – Parte II).
De Niro entra nella stanza d’ospedale: “Che ti è successo, Marty? Non vuoi vivere per vedere se tua figlia crescerà e si sposerà? Vuoi diventare uno di quei registi fuochi di paglia che fanno un paio di bei film e poi per loro è finita? Possiamo davvero fare un ottimo lavoro. Lo facciamo o no?”. Lì Scorsese ha un’illuminazione: “A quel punto capii; mi accorsi che io ero LaMotta. Potevo farlo. Quel film parlava di me”. Aveva finalmente trovato il gancio: l’autodistruttività, il danno arbitrario inflitto a sé e alle persone intorno a lui.
L’autentica sovrapposizione di Toro Scatenato non è quella tra il personaggio e l’interprete Robert De Niro – che disegnerà un ritratto di aderenza fisica e psichica memorabile, grazie anche allo strombazzatissimo e allora non usuale enorme aumento di peso per mettere in scena il declino di LaMotta –, ma appunto quella tra il pugile autopunitivo e un regista che ha la netta sensazione di essere giunto al capolinea, e che girerà quel film con la libertà espressiva e febbrile di chi è certo che sarà l’ultimo che gli faranno fare.
I dubbi di Scorsese erano legati pure al fatto che di boxe non ci capiva assolutamente nulla. “Prima di girare, sono andato a due incontri di boxe, incontri di cinque round tra pugili sconosciuti. La prima sera, anche se ero lontano dal ring, ho visto la spugna rossa di sangue, e il film ha cominciato a prendere forma. La volta successiva, ero molto più vicino e ho visto il sangue gocciolare dalle corde (un dettaglio che diventerà iconico del film, ndr). Mi sono detto che questo sicuramente non aveva niente a che fare con nessuno sport!”.
Da lì la scelta di confezionare un film che diventerà, negli anni del trionfale sogno americano proletario alla Rocky, un autentico anti-Rocky. Aggressivo, masochistico, con un protagonista, Jake LaMotta, perennemente impegnato – sul ring o fuori non fa differenza – a combattere la sua battaglia contro sé stesso e contro le poche persone che gli vogliono bene malgrado tutto, dal fratello Joey (Joe Pesci, eccezionale, e ripescato quando ormai aveva rinunciato all’idea di fare l’attore) alla seconda moglie Vickie (la sconosciuta Cathy Moriarty, vestita come una diva alla Lana Turner anni Quaranta), verso la quale LaMotta sviluppa una gelosia viscerale.
Toro Scatenato viene girato in bianco e nero, con la fotografia di Michael Chapman insieme al quale Scorsese vuole ricreare una pastosità da cinegiornalismo anni Quaranta, che è l’epoca delle vicende del pugile ed anche di tanto cinema amatissimo dal regista. Sorprendentemente i produttori della United Artists, nonostante qualche perplessità, lo lasceranno fare. Probabilmente perché in quello stesso momento hanno ben altri grattacapi, alle prese con la lavorazione de I Cancelli del Cielo del megalomane Michael Cimino, che costerà molto di più, 44 milioni di dollari, un fallimento epocale che determinerà la bancarotta della casa di produzione – e la fine del sogno degli autori al comando della New Hollywood, di cui lo stesso Scorsese lungo tutti i Settanta era stato un alfiere.
La grande scommessa vinta di Toro Scatenato – sebbene il film non sbancherà certo al botteghino, con però una fama critica cresciuta a dismisura nei decenni – è quella di creare una storia cui lo spettatore si appassiona benché sia impossibile identificarsi nel repellente protagonista. Ma, biblicamente direbbe Scorsese, chi siamo noi per giudicare la vita altrui? “Ecco un uomo che si sta distruggendo metodicamente, che sta trascinando gli altri con sé, che cade nel buco più profondo e alla fine si tira su di nuovo. Verso cosa? Non importa. Va a vivere con uno spogliarellista? Sì va bene, e allora? Pensi di essere migliore di una spogliarellista?”.
Il personaggio resta sgradevole e incomprensibile: è qui il valore di Toro Scatenato, che non si attarda nel tentativo di spiegazioni pedanti circa le motivazioni e la psicologia di Jake LaMotta, né, pur descrivendo una caduta e una (molto presunta) rinascita, definisce un tonificante e ottimistico arco narrativo del personaggio. Tutto quel che c’è da capire scorre attraverso le immagini brutali e laconiche, il racconto è nella visione e in quel che c’è tra i fotogrammi, incistato dentro la furia compressa e sempre sul punto di esplodere di un De Niro impressionante.
I momenti memorabili del film sono numerosissimi. I combattimenti con Sugar Ray Robinson, filmati con la camera vicinissima ai pugili, in primissimo piano, come si trattasse di allucinazioni, in bilico tra realismo estremo e astrazione: “C’è un’escalation – dice Scorsese – una progressione nell’orrore e quindi una crescente stilizzazione”. Ugualmente tesi sono gli incontri tra i “bravi ragazzi” di quartiere – questo è, com’era stato Mean Streest prima e come sarà Goodfellas poi, un altro capitolo sull’antropologia mafiosa della New York in cui Scorsese era cresciuto –, e tesissimo, vischioso è il rapporto tra i fratelli Jake e Joey.
Il legame tra i due fratelli è la chiave drammaturgica scelta dallo sceneggiatore Paul Schrader per dare forma al racconto, dopo la prima versione più didascalica e “alla Rashomon” (parole di Scorsese) scritta da Mardik Martin, che s’era perduto nel magma dopo due anni e mezzo di ricerche e interviste su LaMotta. Schrader aveva scritto anche una scena scioccante di masturbazione che persino Scorsese e De Niro considereranno eccessiva e non gireranno. Ma resta la sensualità urticante e possessiva che si sviluppa tra Jake e Vickie, e il dolore che l’uomo si infligge tra le corde e fuori, quando viene incarcerato per aver scambiato una quattordicenne per una donna adulta.
C’è anche più di una traccia dell’amato cinema italiano in Toro Scatenato. Nella sequenza finale, quando l’imbolsito LaMotta recita un brano di Fronte del Porto di Kazan che parla di tradimento tra fratelli, la presenza di una gruccia è una voluta citazione de Il Posto di Ermanno Olmi, un film che aveva molto segnato Scorsese. E c’è sicuramente qualcosa dello Zampanò felliniano in questo essere quasi mostruoso e però capace di una sua oscura grazia (“Non sono un’animale!”, si ribella LaMotta).
Non mancano infine riflessi di Rocco e i Suoi Fratelli: il percorso di autodistruzione del Simone di Renato Salvatori, boxeur fallito che trascina nella rovina la sua famiglia, macchiandosi del delitto della prostituta Nadia che tratta come roba sua, uccidendola in un’esplosione di simbolismi cattolici – la donna che si offre alla morte mimando la posizione del Cristo in croce –, un immaginario cui il cattolico Scorsese aderisce, trovando, come nel film di Luchino Visconti, quella stessa connessione tra la violenza dentro e fuori il ring. Toro Scatenato resta un capolavoro e un omaggio enciclopedico alla settima arte del cinefilo Scorsese. Che va visto sul grande schermo.