Quando Disintegration dei Cure viene sfornato è il 2 maggio 1989 e molte cose sono già state dette. Dagli stessi sodali di Robert Smith in primis: i “tre ragazzi immaginari” sono diventati cinque, sono usciti dai club e sono passati agli stadi e ai programmi televisivi, hanno esplorato il gotico da Three Imaginary Boys (1979) a Pornography (1982), hanno ritrovato la luce da The Top (1984) a Kiss Me Kiss Me Kiss Me (1987) e a mr. Smith non resta che la cristi dei trent’anni.
Fermi, non è tutto qui e quando si parla dei Cure ogni parola si fa riduttiva. In verità Disintegration dei Cure è l’album della rottura in positivo: Robert Smith naviga nella depressione e nella consapevolezza che i grandi geni della musica hanno sfornato capolavori in età giovanissima, dunque che fare? Sedersi e scrivere, scrivere e ancora scrivere.
Il risultato è multifaccia: Disintegration ha una parte romantica (Lovesong) e ipnotica (Pictures Of You), ma anche la dimensione dell’incubo (Lullaby) e dell’ossessione (Fascination Street), con un risultato che somiglia tantissimo a quelle scene dei film horror in cui un bambino innocente è ben più inquietante di un mostro deforme o di un fantasma. Il romanticismo dei Cure non è stucchevole, tutt’altro: è cupo e visionario, labirintico e soffocante.
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Per questo Disintegration si colloca nell’universo dei capolavori. C’è un prima e un dopo Disintegration, che del resto è solo il secondo capitolo di una trilogia iniziata con Pornography (1982) e conclusa con Bloodflowers (2000). Con Lovesong, per esempio, Robert Smith si concede la presunzione di cantare d’amore mentre Lullaby (ninna nanna, dall’inglese) è la magia di riscoprire la paura infantile del mostro che ci osserva la notte e con il quale Smith, evidentemente, non ha mai fatto pace.
Come coniugare le tombe e le nebbie alle rose e ai baci? La risposta è nel disco, un qualcosa che nemmeno il Tim Burton più allucinato sarebbe in grado di partorire e nel quale la fusione “amorte“ ha un senso più che compiuto.