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Gli Spiriti dell’Isola, una commedia nera da Oscar sulla fine di un’amicizia

Un uomo tronca bruscamente i rapporti con l’amico di sempre. Uno spunto drammaturgico minimale, da cui Martin McDonagh ricava riflessioni universali sul senso (e la mancanza di senso) della vita. Ottimi Farrell e Gleeson

di Stefano Fedele
03/02/2023
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INTERAZIONI: 147

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Gli Spiriti dell’Isola

Il motivo fondamentale del meccanismo narrativo de Gli Spiriti dell’Isola rimanda idealmente al precedente film del regista e sceneggiatore Martin McDonagh, il celebrato Tre Manifesti a Ebbing, Missouri. Lì la madre orgogliosa e battagliera di una ragazza brutalmente assassinata fa affiggere tre enormi cartelloni stradali, con durissimi messaggi a caratteri cubitali che chiedono conto allo sceriffo delle sue indagini fallimentari. Ne Gli Spiriti dell’Isola, invece, Colm (Brendan Gleeson) decide all’improvviso di troncare la pluridecennale amicizia col mite Pádraic (Colin Farrell).

Emtrambi i personaggi, la madre e Colm, compiono delle scelte unilaterali, assumendosi consapevolmente la responsabilità delle loro determinazioni, ma egoisticamente disinteressandosi delle ripercussioni dolorose che quel gesto inevitabilmente avrà per le persone intorno a loro. E la cifra decisiva e rischiosa su cui scommette McDonagh sta nel fatto che, rispetto alle premesse tragiche e tutto sommato comprensibili di Tre Manifesti, ne Gli Spiriti dell’isola la scintilla che mette in moto il racconto è così quotidiana da apparire banale e insignificante. Ma nondimeno sarà foriera di conseguenze vertiginose e crudeli.  

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Come il precedente film, anche Gli Spiriti dell’isola di McDonagh è stato molto apprezzato nella stagione dei premi, coronato da nove candidature agli Oscar 2023, con praticamente tutti i protagonisti, Farrell, Gleeson, Kerry Condon (la sorella Siobhán di Pádraic), Barry Keoghan (il matto del villaggio) in nomination. Ed effettivamente questa è principalmente un’opera di recitazione e di calibrata scrittura, a conferma del fatto che quello di McDonagh è in primo lungo un talento drammaturgico.

Infatti dietro questo film c’è una pièce di circa vent’anni prima, The Banshees of Inisheer (quasi identico al titolo originale del film, The Banshees of Inisherin) che avrebbe dovuto chiudere una trilogia teatrale dedicata alle Isole Arana. Solo che, insoddisfatto del risultato, l’allora giovanissimo e già famoso McDonagh (vincitore di tre Laurence Olivier Awards, il più importante premio del teatro britannico), decise di riporre in un cassetto il testo, non pubblicandolo né rappresentandolo mai.

Quell’idea però, non sappiamo quanto fedele al progetto originale, ha trovato la sua forma definitiva due decenni dopo nella versione cinematografica de Gli Spiriti dell’Isola, che McDonagh, nato a Londra ma irlandese purosangue, ambienta nell’inesistente isola di Inisherin (le location sono state le isole Inishmore e Achill) e situa nel 1923, anno conclusivo della guerra civile irlandese i cui effetti, rumori di esplosioni e colonne di fumo in lontananza, sono visibili dall’isoletta vicinissima alle coste della madrepatria.

Il conflitto comunque non tocca Inisherin, protetta nella sua piccola comunità e chiusa, anche mentalmente, nelle ristrettezze d’una esistenza ripetitiva. Per il fattore Pádraic l’unico cerimoniale è l’incontro al pub con l’amico di sempre Colm, alle due precise di ogni giorno. La rottura rappresenta per lui una ferita non rimarginabile, alla quale cerca in ogni modo di porre rimedio, scontrandosi però con un rifiuto unilaterale, con Colm che minaccia addirittura, lui appassionato di violino, di tranciarsi le dita della mano con cui suona, se Pádraic insisterà a importunarlo.

Gli Spiriti dell’Isola porta avanti con fare inflessibile il suo paradosso, che si spiega non tanto con le motivazioni addotte da Colm (Pádraic è un uomo noioso, e gli anni che passano fanno sentire al musicista la vuotezza di una vita priva di risultati tangibili), bensì con le caratteristiche del mondo in cui la vicenda è annegata. Che è sì uno scenario di colline verdeggianti da paradiso terrestre, di commovente e religiosa bellezza (la statua della vergine Maria installata esattamente al bivio che porta alle case dei due protagonisti è lì a ricordarcelo). Ma è allo stesso tempo uno spazio fisicamente, umanamente e moralmente angusto, con i suoi tipi fissi, dalla merciaia pettegola al prete non meno impiccione che tramite la confessione sa tutto di tutti, dal poliziotto violento che distribuisce una giustizia senza misericordia al di lui figlio, il matto del villaggio, costretto a subirne le innominabili angherie.

In un simile, deprimente contesto, resta lo spazio solo per decisioni drastiche: siano quelle assennate della colta Siobhán, che vorrebbe abbandonare l’isola per lavorare in Irlanda, oppure quelle a prima vista immotivate di Colm, che rompe la routine alla ricerca di chissà cosa. Il che risucchia l’unico uomo a suo modo felice di Inisherin, l’inconsapevole Pádraic contento della sua vita passata a bere pinte di birra e accudire amorevolmente l’asinella che è per lui un membro della famiglia (uno degli elementi a suo modo più tragici e commoventi del film) in un vortice di disperazione che gli squaderna davanti agli occhi per la prima volta la natura crudele e non accomodante dello stare al mondo.

Forse Gli Spiriti dell’isola è soprattutto questo, un film sulla presa di consapevolezza del senso (o della mancanza di senso) dell’esistenza. E della necessità di ampliare il proprio sguardo costi quel che costi, smettendo di pensare di essere al sicuro, e cominciando a sporgersi oltre sé stessi. Cominciando a osservare quella costa irlandese che restituisce l’immagine di una tragedia, tragedia che, vittime della loro ignavia, gli isolani sembrano riprodurre nel loro microcosmo, con un’altra piccola guerra civile che ha, come unico esito, quello di far del male a sé stessi (le mutilazioni autoinflitte di Colm), agli altri, animali compresi, e a quella stupenda, straziante natura.

È difficile non percepire, sotto la superficie de Gli Spiriti dell’Isola, il rischio del pezzo di bravura del drammaturgo che cesella dialoghi e snodi di impercettibile, preziosa fattura, dello scrittore che ha l’ambizione di ricavare da un nucleo narrativo così circoscritto un succo così vasto di riflessione universale (cui s’aggiunge pure la nota soprannaturale del personaggio d’una strega, che rimanda alla Banshee del titolo, figura della mitologia irlandese che di notte emetteva un urlo lamentoso per annunciare la morte di una persona del luogo).

Eppure, nel di più di costruzione artificiosa, è impossibile non apprezzare l’ampiezza dello spartito che si muove lungo il crinale di più generi (tragedia? commedia nera?), la capacità di porre in dialogo le figure umane col contesto fisico nelle quali sono annegate, di cui il McDonagh regista sa riprodurre il ritmo lento e silenzioso, di forza stupefacente quasi mistica. Un dono che gli uomini però non sono più (forse non sono stati mai) in grado di riconoscere, insensatamente sfigurandolo, sfigurando sé stessi.

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Tags: brendan gleesonColin Farrellmartin mcdonaghOscar 2023

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