Babylon, l’affresco su sogni e incubi hollywodiani frana sotto il peso delle sue ambizioni

Damien Chazelle racconta il passaggio dal muto al sonoro, e le notti selvagge delle star del cinema Brad Pitt e Margot Robbie. Un’opera costantemente sopra le righe, che nasconde dietro la sua bulimia visiva la mancanza d’ispirazione

Babylon

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Il modo migliore per cominciare una recensione di Babylon, il nuovo film hollywoodiano su Hollywood di Damien Chazelle, è ricordare la nutriente lezione che, ne Il Bruto e la Bella di Vincente Minnelli (autentico capolavoro metacinematografico), il regista Von Ellstein dà al produttore Jonathan Shields (un Kirk Douglas luciferino e titanico), il quale lo accusa di non aver saputo tirare fuori da una sequenza una scena madre. “Potrei farne una scena madre e fare altrettanto con tutte le scene del film, ma così sarei un cattivo regista. Un film tutto scene madri è come una collana senza filo, non sta insieme“.

È esattamente ciò che si potrebbe dire di Babylon, in cui uno Chazelle non meno ambizioso di Shields mette in piedi un’operazione rutilante sin dalla prima stupefacente sequenza, in cui un elefante diventa l’attrazione principale d’una lussureggiante orgia hollywoodiana che esplode nell’intrico di corpi amplessi droghe inseguiti dalla macchina da presa che senza posa vola e plana su ogni dettaglio scabroso eccitante e, tirate le somme, devastante per le vite dei protagonisti.

Babylon, col didascalico titolo che non può non essere memore dei libri scandalosi e scandalistici di Kenneth Anger, è un ritratto dell’eccesso, quasi un remake di La La Land, stessa fascinazione per la settima arte (e per la musica, eterna fissazione di Chazelle), però ribaltando la malinconia delicata da musical citazionista in esibizionismo muscolare ed amfetaminico. L’altro riferimento obbligato è Cantando Sotto la Pioggia, di cui pure Babylon è riscrittura, nel calco del capolavoro di Kelly e Donen che pure lui raccontava il passaggio dal muto al sonoro. Ma quanta leggerezza lì (sotto la quale si nascondeva, elegantemente dissimulata, la paura per quella tv che negli anni Cinquanta minava il primato del cinema). E quanta gravità e grevità nel film di Chazelle, che funziona quasi come un sintomo spaventato del de profundis rivolto al cinema forse sul punto di sparire definitivamente.

Babylon si concentra su tre, anzi quattro personaggi, ritratti appunto nel momento in cui tutto sta per cambiare. La Hollywood libera e selvaggia del muto – senza regole che non siano quella di, dopo notti sfrenate, riuscire la mattina dopo a essere in piedi e tirati a lucido per regalare la propria lucente fotogenia alla macchina da presa sotto l’abbacinante luce naturale del sole della California – sta per essere spazzata via, all’altezza del 1927, dal Cantante di Jazz di Al Jolson e dal sonoro.

Affrontano il cambiamento di paradigma la grande star del muto Jack Conrad (Brad Pitt), collezionista di film donne alcool; la nuova divetta venuta dai bassifondi Nellie LaRoy (Margot Robbie), volgare e piena di dipendenze, sesso gioco droga; il tuttofare messicano Manny Torres (Diego Calva), innamorato a prima vista di Nellie, il quale grazie al suo talento da problem solver risale repentinamente le gerarchie instabili di un ambiente dalle logiche folli; e, meno centrale ma per Chazelle simbolicamente rilevante, Sidney Palmer (Jovan Adepo), trombettista di colore che il sonoro rende un’attrazione di frizzanti cortometraggi musicali, nei quali però scopre a sue spese quanto sia razzista la macchina cinema, per la quale puoi essere allo stesso tempo troppo e troppo poco nero.

La Hollywood del sonoro deve darsi nuove regole di moralità, obbligata a mettere un freno ai propri eccessi sotto i quali rischia di deragliare e risultare invisa all’opinione pubblica che vuole continuare a credere alle immagini scintillanti che passano su pellicola, senza doversi risvegliare da un sogno trasformato in incubo. È invece l’incubo dietro la fabbrica dei sogni, il volto nascosto e distorto che Babylon mostra. E però, lo fa nella forma più esagerata e semplificata, esponendone didascalicamente il disordine dionisiaco, inseguendo il blocco di storie intrecciate dei protagonisti che alla fine, con un’ottica che si fatica a non definire puritana, pagano tutti il prezzo dei loro peccati.

Chazelle fa vedere quello che c’è sotto – letteralmente, come nella sequenza in cui un inquietante gangster (Tobey Maguire) accompagna Manny nei sotterranei in cui si esibiscono dei freaks che rimandano all’inconscio hollywoodiano, l’altra metà del sonno che genera i mostri su cui si sorregge il giocattolo cinema. E i rifiuti tenuti sotto il tappeto da un’industria che fatica a mantenere un accettabile autocontrollo sono, ancora una volta, mostrati nell’esemplarità delle loro deiezioni, escrementi, liquami, conati di vomito che intasano lo schermo in scene costantemente sopra le righe.

Non sono meno pedanti i rari momenti di quiete di Babylon (in tre ore di faticosa visione), in cui i protagonisti, Manny in particolare, cadono in deliquio facendosi cullare dal fascino della settima arte, che nelle loro parole non è altro che “emozione” ed “evasione”. Un’idea elementare, molto al di sotto, restando a un altro recentissimo esempio metacinematografico, di The Fabelmans di Spielberg, consapevole del fatto che l’immaginario cinematografico è all’origine pure dei nostri incubi e traumi, non è solo il balsamo che li cura.

Un’immagine tipo di Babylon

Per capire Babylon bisogna seguirne la lettera, senza farsi distrarre dalla messa in scena raccapricciante che, una sequenza gridata dopo l’altra, parrebbe alludere a chissà quale profonda verità, più per accumulazione di cose che per analiticità dello sguardo. Invece è tutto ben visibile alla superficie, come quel contachilometri dell’automobile inquadrato in dettaglio che sottolinea il ritmo sempre più frenetico di un film che non potrà che schiantarsi contro il fallimento della sua estetica.

Mai visto un tale vortice di cattivo gusto e di magia pura”, sentenzia la giornalista regina del gossip (Jean Smart in una immancabile figura alla Louella Parsons). Solo che qui c’è principalmente il cattivo gusto di un’ambizione sbagliata, mentre la magia resta nello sguardo di Chazelle e dei suoi personaggi che credono fideisticamente a una supposta bellezza del grande schermo, che osservano sempre ad occhi spalancati e rapiti.

La regia conduce fino in fondo la sua sfrenata bulimia, con un finale che segue pedissequamente le orme di La La Land. Lì davanti agli occhi del musicista Sebastian passavano struggenti le immagini della storia d’amore perfetta da musical che non era riuscito o non aveva saputo vivere con Mia, la donna dei suoi sogni. In Babylon invece a passare davanti allo sguardo di un ormai maturo Manny, che ha vissuto l’eclissi della ruggente epoca d’oro di Hollywood, è tutto il cinema passato presente e futuro. Come non volesse accorgersi che la storia è bella che finita, sebbene quel destino l’abbia vissuto tragicamente sulla propria pelle. E allora preferisce lasciarsi cullare dal tepore rassicurante della sala di proiezione, continuando a credere all’idea conciliante della settima arte come fantasia d’evasione.

Chazelle prima racconta la fine del mondo con fare serioso e apocalittico – ma prevedibile: le orge, i vizi, il cinismo dell’industria, capirai. Poi però, semplicisticamente, ci consegna un peana (nostalgico? malinconico? in buona o malafede?) sulla potenza indomabile di un’arte che non morirà mai. Dall’inizio alla fine Babylon dissimula la sua mancanza di lucidità teorica dietro la superficie smaltata di una messinscena talmente sovraccarica e minuziosa da non farci mai vedere davvero niente di preciso. E di fronte al franare di una vicenda che non sta in piedi, il regista Von Ellstein potrebbe chiedere a Chazelle dov’è il supposto filo che dovrebbe tenere insieme i pezzi di un’ispirazione malcerta.

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