Le Vele Scarlatte, per fortuna Pietro Marcello crede ancora al cinema come arte della visione

Una vicenda costruita come una fiaba, che tiene insieme dolcezza romantica e lucida riflessione sulla storia. Sempre sorretta da uno sguardo puramente cinematografico

Le Vele Scarlatte

INTERAZIONI: 170

Con Le Vele Scarlatte Pietro Marcello segna una nuova tappa del suo cinema dallo stile apolide e spiazzante, filtrando la sua passione, ossessione quasi per la storia e le ideologie del Novecento – palpabile nell’originale uso delle immagini d’archivio, presenti con discrezione anche qui – attraverso le maglie di un racconto quasi fiabesco, di abbagliante ricercatezza formale.

La storia è tratta dal romanzo omonimo di Aleksandr Grin, autore russo del primo Novecento sospeso tra toni avventurosi e romanticismo fantastico. Marcello ha riscritto la storia in molte sue parti insieme all’usuale collaboratore Maurizio Braucci e a Maud Ameline e Geneviève Brisac (il film è coproduzione italo-franco-tedesca, girata oltralpe e in francese).

In un imprecisato luogo del Nord della Francia, Raphaël (Raphaël Thiéry) è un soldato che torna dalla Prima guerra mondiale. La moglie Marie è morta, e lui incontra per la prima volta la sua piccola figlia Juliette, presso la casa in cui è accudita amorevolmente da Adeline (Noémie Lvovsky), una donna con una nomea da strega. Raphaël, che è un bravissimo falegname, mite ma con le fattezze d’uomo rude, quasi spaventoso (a tratti fa pensare al Michel Simon de L’Atalante, da cui eredita la passione per la fisarmonica) prende a vivere lì, in questa curiosa piccola famiglia allargata. Però è malvisto dalla retriva comunità del paese, perché “estraneo” e per ragioni legate anche alla fine della moglie.  

Intanto Juliette (da adulta Juliette Jouan) cresce, studentessa modello che rifiuta il trasferimento in città in collegio per restare accanto al padre, sviluppando un carattere fiero e taciturno, appassionata di poesia e canto, percepita pure lei come eterodossa in quell’angusto ambiente di provincia. Fino a quando dal cielo non compare un aviatore, Jean (Louis Garrel), cui potrebbe legarsi il suo destino.

La trama de Le Vele Scarlatte riesce solo molto parzialmente a rendere giustizia a un film che – non potrebbe essere altrimenti conoscendo il cinema di Marcello da Bella e Perduta a Martin Eden, e al personalissimo documentario su Lucio Dalla – si svincola dalla dittatura dello “storytelling”, cercando una cifra stavolta più che mai di forte impronta lirica, con i dettagli della rigogliosa campagna francese oppure le mani nodose di Raphaël inquadrate in primissimo piano, parti entrambe di una medesima natura in cui la realtà fisica si trasfigura in elemento spirituale, insieme materiale e fantastico.

È questa la caratteristica della calibrata e – inevitabile aggiungerlo vista la presenza di canzoni apparentemente stranianti – musicale partitura visiva imbastita da Marcello (anche operatore di macchina). Da un lato c’è una evidente propensione fiabesca di cui ritornano figure archetipiche, l’orco Raphaël, la strega Adeline, la damigella un po’ fata Juliette (che a un certo punto qualcuno chiama “Cappuccetto Rosso”), il principe azzurro sui generis Jean.

E sebbene a tratti Le Vele Scarlatte soffra l’affanno della leziosità e dell’esercizio di stile “poetico”, a riscattarlo e sostenerlo ci sono sempre le solide fondamenta concettuali, che per Marcello appartengono al Novecento su cui torna costantemente. Anche qui, nell’apparentemente distante e atemporale entroterra francese irrompe la modernità: l’aereo di Jean, i grandi magazzini della città (visti in bellissimi spezzoni di repertorio fusi alle immagini del film che ne ereditano la grana calda e pastosa), i trenini elettrici che mandano in soffitta i giocattoli di legno fatti a mano che fino ad allora Raphaël era riuscito a vendere.

Il film cerca una giuntura difficile, ciò che lo rende abbastanza unico nel panorama del cinema contemporaneo, tra ispirazione romantico-fantastica e riflessione lucida sulla storia. La quale da un lato, come in Martin Eden, rimanda indubitabilmente a idee e utopie di marca otto-novecentesca (valga per tutti la presenza d’una poesia di Louise Michel, anarchica, comunarda, protofemminista). Dall’altro guarda alla contemporaneità, alludendo al femminicidio, a nuclei familiari di nuovo conio e una più marcata indipendenza femminile (cosa che non può far rientrare l’emancipata Juliette nel ritratto favolistico della pulzella in attesa del suo principe).

Però, in ultima analisi non è sul versante del messaggio o dell’ammicco ai nostri tempi che risiede la qualità principale de Le Vele Scarlatte. Che alberga nella fiducia assegnata alla forza espressiva dello stile, in cui la potenza epica che intaglia personaggi indimenticabili emerge da una messinscena quieta, quasi minimalista, che traduce ogni idea in una visione e che anzi, come dovrebbe essere, fa esattamente l’opposto, pensa per immagini da cui sgorgano come conseguenza dei concetti. Mantenendo sempre una purezza di sguardo rinfrancante, correndo il rischio delle proprie imperfezioni e squilibri. I quali diventano un merito ulteriore di un autore che, per ragioni misteriose, crede ancora al cinema.

Continua a leggere su optimagazine.com