Martin Eden è ambizioso, inattuale, ambiguo. E nel segno del lutto. Il film di Pietro Marcello è in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, dove è in odore di un premio che, non ci fosse l’annunciatissimo Joaquin Phoenix di Joker, dovrebbe andare allo straordinario Luca Marinelli. Un protagonista che sa assumersi il peso di un’opera stilisticamente ardita, che grazie alla capacità dell’attore di dosare silenzi ed elettricità, spirito di rivolta e abbandono romantico, sembra quasi un film narrativo tradizionale.
Martin Eden è una libera trasposizione, sceneggiata dallo stesso Marcello e Maurizio Braucci, del celebre romanzo di Jack London, con l’azione spostata dalla California a Napoli. L’impianto resta il medesimo: il giovane marinaio Martin, che mantiene il suo nome anche se diventa partenopeo, salva un giovane da un’aggressione, che lo ringrazia invitandolo nella casa altoborghese di famiglia. Lì Martin incontra la sorella Elena (Jessica Cressy) e ne resta folgorato. Per lei decide di cambiare, lottando strenuamente e da autodidatta, lui poveraccio analfabeta che parla solo dialetto, per farsi una cultura e conquistare il cuore della ragazza.
Martin decide di diventare scrittore, e invia ostinatamente saggi e racconti a riviste che puntualmente rispediscono tutto al mittente. Nel frattempo si costruisce le sue idee, alfiere d’un individualismo ispirato al darwinismo sociale di Herbert Spencer – autore enormemente influente a cavallo dei due secoli –, entrando anche in contatto, grazie all’incontro con l’intellettuale anarchico Russ Brissenden (Carlo Cecchi), con i movimenti socialisti e dei lavoratori. Il successo alla fine arriverà. Ma non risolverà nulla.
Come dicevamo, Martin Eden è un film ambizioso. Nello stile prima di tutto. Marcello ammorbidisce il documentarismo poetico dei primi lavori (La Bocca Del Lupo, Bella e Perduta), e passa, come ha detto felicemente Nicola La Gioia, “dall’astratto al figurativo” e a una narrazione più piana. Ma resta comunque una narrazione a modo suo. Tanti i materiali d’archivio impiegati – si comincia con l’anarchico Errico Malatesta a una festa del Primo maggio del 1920 – che si mescolano in modo talvolta quasi impercettibile alle parti di finzione, girate in un super 16 millimetri che dà alle immagini una consistenza granulosa, pastosa e fragile, come si trattasse di spezzoni anch’essi riesumati da un tempo lontano. Come lontani sono spesso i volti che appaiono, facce di un’altra Italia e di un’altra società, che portano addosso i segni della fatica e di un diverso modo di vivere e penare – ma sono presenze non connotate da alcuna retorica pauperista, semplicemente la traccia oggettiva, la testimonianza di qualcosa che è successo.
Qual è quindi il tempo rappresentato dal film? Ecco l’inattualità del film. Che lo è, inattuale, per la scelta d’un romanzo portatore di istanze lontane dalla sensibilità contemporanea. Ma anche perché Marcello, oltre a mescolare finzione e documentario, film d’autore e cinema popolare, sintetizza i tempi del racconto in una temporalità indefinita, priva di chiara collocazione. Martin Eden è ambientato nell’intero Novecento, dal primo decennio agli anni Settanta col televisore e miserabili interni sottoproletari.
Non c’è alcuna linearità nel racconto, quindi. Non si passa da un prima a un dopo, da una causa a un effetto. C’è invece una stratificazione di momenti, appartenenti a epoche diverse, ognuna delle quali lascia una traccia sulle altre, come in un palinsesto. Col risultato che viene meno un’idea di progresso. Ogni tempo, in un certo senso, ripete i precedenti dentro i quali è incastrato. E se non c’è progresso temporale, pessimisticamente, non c’è neanche cambiamento possibile. Il che spiega anche perché l’ultimo tempo del film sia quello, distruttivo, della guerra.
Da qui origina pure l’ambiguità strutturale del film: che non è confusione o imprecisione, ma mancanza di contorni netti. I tempi sfumano in altri tempi, i luoghi si ribaltano l’uno nell’altro, passando dalla città – una Napoli indefinita, tra realismo e allucinazione – alle campagne contadine. Lo stesso vale per le musiche, giustapposte in maniera incongrua – canzone napoletana, Debussy, Daniele Pace – e i generi cinematografici, impastati e sfatti uno dentro l’altro, melodramma, sceneggiata, film modernista.
Il risultato è un racconto che non assomiglia a nessun altro, che anche quando cita lo fa senza tic autoriali o vezzi postmodernisti, ma per una esigenza espressiva autentica, cui Luca Marinelli regala ulteriore urgenza. Proprio le citazioni rimandano fortemente al lutto cui accennavamo all’inizio. Sarà un caso, ma sono quasi tutti suicidi gli autori novecenteschi che lampeggiano nel racconto e di cui talvolta Martin prende in prestito le parole, da Stig Dagerman a Nora May French a Vladímir Majakóvskij, cui s’ispira la sequenze della conferenza che un ormai celebre ma disilluso Martin Eden fa davanti a un pubblico che sembra già quello affamato di gossip della società dello spettacolo.
Martin Eden fa sue le parole dei più indifesi, insomma: tra cui ci sono Russ Brissenden e lui stesso, attesi dal medesimo destino. Un destino richiamato, è un altro inserto documentario, da un veliero che affonda rovinosamente. Nel pessimismo sommesso ma fermo del film sembra affondare ogni cosa: illusioni, utopie, socialismo. Tutto quel Novecento ormai lontanissimo, i cui decenni però, come montati dal racconto, diventano intercambiabili perché è tutta la Storia, “uno scandalo che dura da diecimila anni”, a restare sempre uguale a sé stessa, impietosa con gli umiliati e offesi di cui, sebbene improvvisamente ricco e famoso, Martin continua disperatamente a fare parte.