Westwood, Pelé e Pezzoli, come il nostro immaginario perde pezzi

La natura sa essere crudele, è un fatto. O forse siamo noi a dare alla violenza della natura una connotazione che, di suo, sicuramente non ha


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La natura sa essere crudele. Lo abbiamo sentito dire chissà quante volte, forse lo abbiamo detto noi stessi, magari di corredo a immagini che ci mostrano predatori divertirsi a uccidere le loro prede, o semplicemente provando a trarre una morale da un film animato per bambini come Madagascar. Certo, una crudeltà anche coreografica, il ghepardo che corre al ralenty fino a arpionare con le zampe anteriori la gazzella è qualcosa che nessun etoile della Scala riuscirà mai a ricreare, così come divertente, il serpente gigantesco, immobile, che mostra la chiara sagoma di un maiale al suo interno, inghiottito in un sol boccone, fa anche ridere, ma pur sempre crudele. Su quanto la natura sia crudele, del resto, si sono spesi nei secoli artisti, poeti, pensiamo al mio conterraneo Leopardi, per dire, non serve che a questo punto arrivi io a mettere didascalie inutili.

La natura sa essere crudele, è un fatto. O forse siamo noi a dare alla violenza della natura una connotazione che, di suo, sicuramente non ha. L’idea che una preda sia uccisa da un predatore, infatti, anche dopo un divertito accanimento, fa parte del corso delle cose, corso che non a caso viene definito corso naturale delle cose. Poi, certo, noi umani siamo diventati specialisti in comportamenti violenti, del tutto incuranti di quel che il nostro passaggio lascia alle nostre spalle. Al punto che se davvero il risultato del nostro scellerato modo di stare al mondo dovesse portare all’apocalisse che gli esperti di climate changing da tempo ci prospettano, c’è chi parla di pochi anni, chi allunga la parabola neanche troppo più in là, tendiamo a far coincidere con quella che probabilmente sarà la scomparsa del genere umano dal nostro pianeta con la fine del mondo, come se fosse la presenza umana sulla Terra a coincidere con il futuro della Terra stessa, poveri piccoli illusi. Questa faccenda del considerarci in qualche modo gli intestatari del posto dove siamo capitati, in fondo, è una nostra cifra, lungi da me ora addentrarmi in teorie speciste, figuriamoci, sto raccontando una storia, non sto mica provando a cambiare le traiettorie della trama. Siccome siamo dotati di intelletto, ce lo ripetiamo con un mantra quasi sospetto, come chi prova a farsi coraggio di fronte a un pericolo imminente ripetendo che andrà tutto bene, tendiamo a ritenerci sopra tutto e tutti, noi abbiamo coscienza di noi, abbiamo la razionalità, certo, ma anche la coscienza, il gusto estetico, il senso della frase, insomma, ci siamo capiti, noi siamo noi, la natura sa essere crudele, povero pianeta sul punto di implodere.

Ecco, mentre assistiamo la natura crudele, al capezzale di un mondo lì lì per implodere, cavalieri dell’Apocalisse che attraversano il cielo, chi come me è nato sul volgere del secolo scorso, del millennio scorso, assiste a uno stillicidio di punti di riferimento, quando non sono quelli personali, privati, Dio ce ne scampi, sono i riferimenti culturali, dando alla cultura parola il suo vero significato, quello più ampio possibile, a lasciarci, in un susseguirsi e sovraffolarsi di morti, non passa giorno che non arrivi una brutta notizia, spesso relativa a nomi la cui anagrafe non dovrebbe giustificare una morte. Aprire i social, ormai, perché certe notizie partono prima sui social e poi, solo poi, arrivano su siti e giornali, diventa angosciante, quasi quanto rispondere a certe telefonate che arrivano nel pieno della notte, quasi mai qualcuno che ha sbagliato numero, ormai tutti abbiamo i numeri registrati in rubrica, come per la memoria relativa alle strade e ai percorsi che ci portano da A e B, affidati automaticamente ai navigatori, nessuno potrebbe far conto su altro per chiamare qualcuno, aprire i social, quindi, è diventato angosciante, ogni giorno un pezzetto, magari neanche troppo piccolo, del nostro immaginario si è staccato da quel puzzle che abbiamo costruito giorno dopo giorno, lasciando un vuoto, una assenza, una crepa. Oggi è la volta di non uno, ma addirittura tre nomi, e sotto i giorni di festa già altri pezzi di storia se ne erano andati, penso giustamente a Terry Hall, penso a Maxi Jazz dei Faithless, penso a Claudia Arvati, tre nomi non strettamente legati al mondo della musica, in apparenza, non tutti, ma comunque parte del mio personale immaginario. Leggo infatti che sono morti nella giornata di ieri Vivienne Westwood, colei che, insieme a Malcolm McLaren ha sostanzialmente inventato il movimento punk per come lo abbiamo conosciuto, e che di quel movimento è stata anche stilista riconosciuta, prima dalle vetrine del negozio di King’s Road chiamato Sex, quello che diede il nome ai Sex Pistols, poi divenendo titolare di un brand notissimo e stilosissimo, una vera e propria icona fatta carne e ossa prima che stoffa e abiti, aveva ottantuno anni, leggo che è morto Edson Arantes do Nascimiento, per tutti Pelè, uno dei calciatori pià forti di tutti i tempi, per qualcuno il più forte, lui e Diego Armando Maradona a giocarsela ora da qualche parte, immagino su un campetto di periferia, una palla di stracci tra i piedi scalzi, una morte, la sua, annunciata, da settimane era peggiorato, lui che col tempo era stato inglobato dal sistema calcio, a differenza del Pibe de Oro, in qualche modo oscurando la sua leggenda, almeno ai miei occhi, ma col pallone tra i piedi inarrivabile, leggendario, a suo modo magico, di anni ne aveva ottantadue, leggo che è morto a soli settant’anni Giovanni Pezzoli, storico batterista prima di Lucio Dalla e poi fondatore con Gaetano Curreri degli Stadio, coi quali aveva vinto Sanremo nel 2016, vittoria cui era seguito un malore che ne aveva segnato il fisico irrimediabilmente, un grande musicista, sicuramente, una persona perbene, cosa rara in questo ambiente. Tre morti che in qualche modo mi avrebbero colpito singolarmente, quella della Westwood è sicuramente il pezzo del mio immaginario più grande, il punk ha segnato indelebilmente la mia poetica, il genio di Vivienne e di Malcolm a illuminare tante scelte fatte nel corso degli anni, il guizzo teorico che si fa materia, l’intuizione che genera arte, lo stile e la forma che dominano la sostanza, che si fanno sostanza, quella di Pelè la più telefonata, nel suo caso l’ultimo baluardo di un calcio che non esiste più, quello dove la fantasia aveva la meglio sulla forza fisica, il genio sul corpo, un calcio che ci ha regalato i Brera, i Soriano, i Galeano, i calciatori coi baffi e quelli che bruciavano le proprie carriere come fossero rockstar, quella di Pezzoli, non troppo più grande di me, in fondo, l’unico che ho conosciuto di persona, proprio a Sanremo, dopo averlo così tanto amato già quando ero bambino, Banana Republic consumato sul piatto dello stereo di casa di famiglia, in realtà ho conosciuto anche Vivienne Westwood, nel suo atelier di Londra, una vita fa, ma sicuramente lei si sarà dimenticata di me dopo pochi secondi dall’esserci stretti la mano, io un reporter di viaggio italiano capitato di lì quasi per caso, lei la divina Vivienne Westwood, diverso con Giovanni, che mi aveva avvicinato per chiedermi se dietro il voto alto che avevo dato alla loro Un giorno mi dirai, di lì a breve vincitrice del Festival, c’era una qualche ironia, l’ironia è sempre stata la mia cifra punk e evidentemente seppur io fossi da poco tornato alla critica musicale dopo anni di standby lui lo aveva ben colto, quella di Pezzoli la morte più insensata, perché oggi non si dovrebbe poter morire a settant’anni, la natura sa davvero essere crudele, un Emù che si avvicina al greto del fiume e viene divorato da un coccodrillo che se ne stava lì, mimetizzato nel fango, pronto a colpire con una velocità inaspettata, impietosa.

Domani altre brutte notizie accompagneranno il nostro risveglio, ci scommetto, una generazione che evidentemente ha molto vissuto e molto velocemente si sta spegnendo più velocemente di quanto l’anagrafe dovrebbe prevedere, la tentazione di riprendere a guardare il mondo da una finestra reale, di quelle che ci consentono di vedere solo quello che è a portata di mano, quasi letteralmente, molto forte, perché come cantava Fossati in quel capolavoro di Macramé, album che prima o poi qualcuno si dovrebbe premurare di collocare tra i lavori discografici italiani più importanti di sempre, come cantava Fossati nella canzone L’abito della sposa, “ho paura delle buone notizie, perché è peggio di come si dice”, figuriamoci delle cattive notizie. E ora scusate, ma per dirla parafrasando l’incipit di un’altra canzone, sempre contenuta in quel medesimo album, scusate se non telefono, ma ho già il mio bel da fare a non morire.