Le Otto Montagne, storia sincera e malinconica di un’amicizia indissolubile

Nel film tratto dal romanzo premio Strega di Paolo Cognetti, Luca Marinelli e Alessandro Borghi, uno cittadino, l’altro nato sulle Alpi, si conoscono da bambini e restano legati per sempre dalla montagna, dalla sua bellezza e durezza

Le Otto Montagne

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Uscito durante le festività natalizie, non esattamente il momento più adatto per un film intimista e malinconico, Le Otto Montagne di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch sta riuscendo a conquistare un suo pubblico. Il merito è sicuramente da ascriversi al richiamo moderatamente “divistico” dei protagonisti, Alessandro Borghi e Luca Marinelli, probabilmente i più incisivi attori italiani dell’ultima generazione, capaci sin dal tempo di Non Essere Cattivo di Claudio Caligari di creare una forte chimica di coppia che si respira naturalmente anche in questa storia di amicizia virile, taciturna e profonda.

Vincitore del Premio della Giuria a Cannes e tratto con molta fedeltà dall’omonimo romanzo premio Strega di Paolo Cognetti (che compare anche in un cameo), Le Otto Montagne è la storia dell’incontro negli anni dell’infanzia tra Pietro (da adulto Marinelli), ragazzino torinese figlio dell’ombroso Giovanni (Filippo Timi) e Bruno (Borghi), nato e vissuto tra le Alpi della Val d’Aosta in cui i genitori di Pietro, appassionati di montagna, spendono le loro estati. L’amicizia tra i due ha il ritmo brusco e franco della vita ad alta quota, ritmata non da tanti discorsi ma dai momenti vissuti insieme. Ed è, soprattutto per Pietro, anche un’educazione sentimentale e pratica all’esistenza, apprendendo un altro modo di stare al mondo diverso da quello caotico e angusto della città (le poche inquadrature dedicate a Torino soffrono sempre della limitatezza di spazi e prospettive).

Dopo gli anni dell’infanzia l’amicizia si interrompe, Pietro perso tra lavori e aspirazioni incerte – e perennemente in conflitto col padre ingombrante, con cui non riesce a costruire un rapporto sereno –, Bruno costretto dalle modeste condizioni di partenza a una precoce vita adulta da muratore – sebbene proprio Giovanni e sua moglie (Elena Lietti), cogliendone la vivace intelligenza, si fossero offerti di aiutarlo per farlo studiare in città, proposta rifiutata sdegnosamente dalla famiglia di lui.  

I due si ritrovano, da adulti, dopo la morte di Giovanni. Pietro viene a conoscenza del legame profondo intrattenuto in tutti questi anni tra suo padre e Bruno. Ed è quest’ultimo, che continua a vivere tra quelle montagne che ne hanno sagomato il carattere trasparente, onesto e spigoloso, a mostrargli l’isolata baita che il papà aveva acquistato tra le Alpi. Durante un’estate i due decidono di ricostruirla dalle fondamenta, come omaggio a quella che in modi diversi è stata figura paterna per entrambi, e come simbolo della loro ritrovata amicizia. La montagna però non consente lieti fini accomodanti. Sia Pietro, che trova un qualche successo come scrittore e continua i suoi vagabondaggi fino in Nepal, sia Bruno, che diventa padre e prova a farsi imprenditore gestendo un alpeggio, dovranno fare i dolorosi conti con tutto ciò.

Per Le Otto Montagne i due registi belgi Van Groeningen e Vandermeersch – lui da solo già autore di due film più emotivamente espliciti, Alabama Monroe e Beautiful Boy – mettono la sordina al melodramma e optano per uno stile introverso, scolpito come le montagne che fanno da teatro alla vicenda. Già la scelta del 4:3, come il cinema classico di una volta, dichiara la volontà di non farsi irretire dalla poesia facile dei magnifici paesaggi ripresi in formato panoramico. Perché, come ha anche sottolineato il direttore della fotografia Ruben Impens, la bellezza degli scenari, monti, valli, ghiacciai e laghi alpini s’impone senza bisogno di additivi estetizzanti. E allo stesso modo traspare la forza del legame umano tra Pietro e Bruno, fatto non delle (poche) parole ma dei gesti e della fedeltà ai sentimenti.

Noi diciamo che al centro del mondo c’è un monte altissimo, il Sumeru. Intorno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Questo è il mondo per noi”. Questa storia, raccontata a Pietro in Nepal, diviene la metafora dei caratteri dei due protagonisti: Bruno saldo sul monte al cuore del mondo che lo definisce integralmente, al punto da trasformarsi in una gabbia dalla quale non riesce a emanciparsi; Pietro più insofferente, alla ricerca di sé stesso tra le otto montagne, ma sempre attratto da quel centro gravitazionale che cerca di ricreare costruendo la baita che avrebbe voluto Giovanni.

Il film è punteggiato da metafore che con discrezione passano attraverso le cose e i luoghi della montagna, come l’alberello che Pietro sradica dalla baracca e cerca di ripiantare lì vicino. “È una pianta strana quella lí. Forte per crescere dove cresce e debole appena la metti da un’altra parte”, dice Bruno. Senza saperlo, sta parlando di sé stesso.

Le Otto Montagne è segnato da un dolore sincero, che lascia addosso allo spettatore una tristezza autentica, ottenuta senza effettismi e ricatti emotivi. I personaggi s’arrendono a un destino che pare non dipendere interamente da loro, come fosse scritto da sempre nella durezza della pietra – allo stesso modo in cui la memoria di ciò che è stato è cristallizzata nei ghiacciai, perché, scrive Cognetti nel romanzo, “il ghiacciaio è la neve degli inverni lontani, è un ricordo d’inverno che non vuole essere dimenticato”.

Resta però l’impressione di una laconicità quasi eccessiva. Il racconto fatica a trovare un respiro compiuto, affidandosi a un tono che, pur melanconico e affascinante, non riesce a dire fino in fondo quello che vorrebbe o dovrebbe dire. C’è una sequenza in cui Bruno riprende dei turisti che parlano genericamente della bellezza della natura. “Siete voi di città che la chiamate natura – dice – È così astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome. Noi qui diciamo bosco, pascolo, torrente, roccia, cose che uno può indicare con il dito. Cose che si possono usare. Se non si possono usare, un nome non glielo diamo perché non serve a niente”.  Non segue fino in fondo questa lezione Le Otto Montagne, cui avrebbe giovato una maggiore attenzione ai dettagli di cose, gesti e sentimenti.

Per esempio, e già nel libro, manca il controcampo della metropoli. A proposito del padre, Cognetti scrive che “faceva il chimico in una fabbrica di diecimila operai, perennemente agitata da scioperi e licenziamenti, e qualunque cosa succedesse là dentro la sera ne tornava carico di rabbia”. La città e il lavoro sono tutti qui: una parentesi lontana, opaca e invariabilmente brutta, di cui da lettori e spettatori vorremmo sapere di più, perché avrebbe aiutato a comprendere meglio le motivazioni che hanno spinto Giovanni e Pietro a eleggere la montagna quale loro vera casa, e Bruno ad accettarla come un dono e una condanna ineluttabili. Il film invece resta troppo reticente, si ferma pudicamente alla superficie dei personaggi, mostrati attraverso una confezione allusiva e poetica che non racconta fino in fondo la loro storia. E Le Otto Montagne, pur fascinoso, non riesce a essere pienamente memorabile.

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