Sto guardando Mercoledì, la nuova serie targata Tim Burton, che in realtà ha diretto solo I primi quattro episodi, uscita per Netflix. È una teen story a tinte horror che ruota intorno al personaggio di Mercoledì Addams, interpretato da una conturbante Jenna Ortega, capace non solo di bucare lo schermo, col suo modo carnale di apparire in una sorta di stato di premorte, gli occhi che non battono mai le palpebre, nessuna espressione a attraversarle il viso, ma anche di entrare nel giro di solo otto episodi nell’immaginario di un pubblico giovane che, c’è da scommetterci, non aveva già visto I film nei quali era Christina Ricci, presente in un cameo, a interpretarla, figuriamoci la vecchia serie di telefilm in bianco e nero. La serie, che è una sorta di costante mashup tra televisione e cinema, presenta quasi a ogni inquadratura una citazione, fatto che suppongo darà la stura a chissà quante pagine web dedicate a sviscerare I vari riferimenti nascosti nella trama, a un certo punto omaggia Carrie- Lo sguardo di Satana, film del 1976 diretto da Brian De Palma e ispirato al primo romanzo di Stephen King. La storia di Carrie è quella di una ragazza figlia di una famiglia di fanatici religiosi che incappa nella cattiveria di un gruppo di suoi compagni di scuola, il tutto nel momento in cui passa dall’essere bambina all’essere donna. C’è una scena nella quale Carrie, che non è esattamente un personaggio che potrebbe ambire di suo a incarnare il ruolo di top model, stando ai canoni vigenti allora come ora, sta facendo la doccia negli spogliatoi della scuola insieme alle sue compagne. Proprio in quel momento il menarca fa la sua apparizione sulla scena, scivolandole tra le gambe, tra le risate di scherno delle compagne, che arrivano a tirarle addosso degli assorbenti, rendendo un momento difficile in qualcosa di estremamente terribile. Il fatto non sfugge alle autorità scolastiche, che puniscono le ragazze che hanno bullizzato Carrie, fatto che però contribuisce a renderla ancora più impopolare, il tutto mentre la madre la punisce, rinchiudendola in uno sgabuzzino buio, confondendo lo sviluppo sessuale con il desiderio sessuale, e comunque dando a quest’ultimo un senso negativo. Comunque, una delle ragazze punite dalla preside, cioè cui viene negata la possibilità di partecipare al ballo di fine anno, evento clou nelle scuole americane, decide di vendicarsi della povera Carrie, ordendo uno scherzo assai più tremendo dello sfotterla sotto la doccia. Il suo fidanzato si finge invaghito di Carrie e la invita la ballo. Lì, mentre I due stanno per essere premiati come coppia dell’anno, sta per compiersi la tragedia. Sopra la testa di Carrie, infatti, c’è un secchio pieno di sangue di maiale, che al momento giusto Chris, la ragazza crudele esclusa dal ballo, le farà cadere sulla testa, esponendola alle risate di tutti I presenti. Carrie, però, ha poteri sovrannaturali, che la porteranno a devastare la sala e I presenti, facendo una strage. Non spoliero il finale, sempre che qualcuno abbia mai intenzione di andarsi a vedere un film o leggere un libro di cui però già conosce un buon 90% della trama. Mentre Mercoledì Addams balla alla festa di fine anno del suo college, quindi, omaggiando esplicitamente l’Uma Thurman di Pulp Fiction che balla con John Travolta, la musica dei Cramps a fare da colonna sonora, solo per questo la serie in questione andrebbe eletta serie dell’anno, ecco che inizia a piovere un liquido rosso da uno di quei tubi preposti alla sicurezza anticendio. Una chiara citazione di Carrie, che Mercoledì certifica con una battuta delle sue, “Non hanno trovato neanche del vero sangue di maiale,” dice dopo essersi portato un dito alla bocca, lo sguardo contrariato, “è solamente vernice”.
Chiaramente una citazione è una citazione, un modo di omaggiare l’originale e anche di dare indicazioni agli spettatori, pure coinvolgendoli nel loro capire o meno di che citazione si tratti, ma mentre in Mercoledì la scena in questione è una bella scena di una bella serie TV, Carrie, sia il libro che il film, avevano riposto in quella scena ben altro, essendo il sangue indicato di volta in volta come qualcosa di cui vergognarsi, per il quale essere prese in giuro, la prova di uno spirito peccaminoso, il motivo scatenante di una rabbia da quel momento irrepressa, è chiaramente un parlare di un argomento universalmente considerato un tabù, talmente inraccontabile da non essere oggetto di opere d’arte, si parli di film o di canzoni, se non in queste modalità decisamente altre, un film horror è sì metaforico, ma ricorrendo al sovrannaturale, quindi senza potersi permettere la strada della normalità. Del resto, tanto è tabù il vero protagonista di questo film, le mestruazioni, è di loro che stiamo parlando, che in genere nessuno le chiama esattamente col loro nome, indicandole con un più generico “le mie cose” (declinabile anche in un “le tue cose”, ovviamente), ben sapendo che cose in italiano non si dovrebbe usare con troppa generosità, termine talmente vago da essere usato proprio da chi non ha un vocabolario adeguato, ci dicevano a scuola.
Io non mi occupo di serie tv, non direttamente, né mi occupo di cinema. Scrivo di musica. E spesso scrivo di musica al femminile. Parlo quindi di cantautrici, ma anche di corpi delle donne nelle canzoni, tema cui ho dedicato un TedX dal titolo Venere senza pelliccia e un monologo dal titolo Cantami Godiva, poi divenuto un libro. Nell’occuparmi di questi temi, anche recentemente sono finito a parlarne nel dipartimento di italianistica dell’Università di Macerata, invitato dalle professoresse Carla Carotenuto e Michela Meschini per una conferenza dal titolo “In che corpo?”, laddove il corpo era sì quello delle donne nelle canzoni, ma anche quello che si usa quando si decide di scrivere su un foglio word, la musica di Serena Abrami, accompagnata dalla violoncellista Monica Del Carpio a fare da colonna sonora, ho tristemente constatato come molti dei tabù che in genere occupano militarmente la nostra convivenza civile, in questo caso un po’ meno civile di quanto dovrebbe, abitano I testi delle canzoni. Così quasi mai si parla di corpi, appunto, sostituiti incautamente dai sentimenti, come se le due cose fossero incompatibili tra loro, con le rare eccezioni come Questo corpo de La Rappresentante di Lista. Niente sesso, figuriamoci, né raccontato direttamente né evocato, e nei rari casi in cui accade è spesso fatto usando le medesime modalità e parole degli artisti maschi, penso a una Chadia Rodriguez (un raro esempio virtuoso in tal senso è quello di Margherita Vicario che nel brano Fred Astaire dà la più grande descrizione di un orgasmo e del tentativo di rimandare il coito in metrica che mi sia capitata di ascoltare, questa: “Baby, adesso farò tutto quello che mi chiedi/ Ti bacerò con gli occhi chiusi però, dai, ti prego conta fino a dieci/ E da che mondo è mondo il pane è buono caldo/ come le mie gambe, anche in pieno inverno/ Baby, stammi concentrato, pensa a qualcos’atro, oh”, il tutto su una musica dolcissima). Ovviamente niente masturbazione, per dire, inutile star qui a citare ancora una volta America di Gianna Nannini, canzone uscita quando io avevo dieci anni, ora ne ho cinquantatré, mentre sul fronte maschile ce ne sono da sempre di notevoli, dalla “lacrima in un pugno” di Celentano, dove no, non si parlava di piangere dagli occhi, alla “sua figura in una asciugamano” del Portiere di notte di Enrico Ruggeri, via via fino al “Non so bene cos’è/ Forse I troppi caffé / ma stanotte non riesco a dormire/ e stanotte l’amore lo faccio con me” dell’Alex Britti di 7000 caffè, il “In silenzio è partita la mia mano” di Disperato erotico stomp è ormai uscito dalla semplice musica leggera per essere iscritto di rititto nella storia della letteratura italiana, credo. Figuriamoci quindi se c’è spazio per le mestruazioni (e per logica conseguenza anche niente riferimenti alla menopausa).
Parlo di Italia, ovviamente, all’estero I corpi sono ben più presenti nei testi delle canzoni, si pensi a soggetti come Nicki Minaj o Megan Thee Stallion, che parlano praticamente solo di corpi, ma anche tanti altri nomi, da Amanda Palmer a Lady Gaga, da Beyoncé a Janelle Monae. Cioè, non che ci siano poi così tante canzoni che ruotano intorno alle mestruazioni, fatto che dovrebbe in qualche modo essere centrale nei racconti al femminile, dal momento che è una questione che riguarda tutte le donne per un lasso di tempo assai importante delle loro vite, ma quantomeno qualche brano significativo c’è. A partire dai brani delle immancabili Riot Grrrl, che hanno usato la propria femminilità come un’arma contundente, consce che il corpo delle donne, come quello delle streghe, fa paura come poche cose, penso alla My Red Self delle Heavens to Betsy, prima band di Corin Tucker, poi nelle Sleater-Kinney, dove il corpo di una adolescente diventa l’ambientazione per uno scontro letteralmente all’ultimo sangue tra le donne e il mondo, e del resto sarà un’altra riot grrrl, Donita Sparks delle L7 a rendere le mestruazioni parte dell’immaginario rock’n’roll quando, al Festival di Reading, nel 1992, reagì al lancio di oggetti sul palco, a casua di problemi con l’amplificazione, sfilandosi un tampax e lanciandolo contro la folla al grido di “mangiate il mio tampone, fottuti”, gesto iconico e provocatorio, certo, ma assolutamente in linea con la poetica di quel gruppo di artiste, lì a rivendicare il corpo della donna come qualcosa di un po’ meno plastificato di quanto l’immaginario patriarcale tendeva a far passare. Del resto l’Ani Di Franco che scriverà Blood in the Boardroom, brano sempre di quegli anni, 1993, non è stato meno diretta, un brano che usa il sangue per sancire una sorta di patto tra donne discriminate dal sistema, a generarlo un episodio autobiografico di quando un giorno, dentro la sua etichetta discografica, empatizzò con la receptionist cui chiese un assorbente, unica donna incontrata in quel luogo, tutti uomini quelli con cui si sarebbe poi trovata a fare una riunione di lavoro.
In Italia, come dicevo, il grande nulla. I tabù sono trattati come tali, quindi tenuti a debita distanza, temuti e schivati. Al punto che la battuta, non troppo felice nella riuscita, di Dargen D’Amico riguardo la sua passione per il sangue mestruale, lui lì sulla poltrona del giudice di X Factor a dire che il solo sangue che gradisce è quello che esce da un determinato punto particolare della donna, ha fatto scandalo proprio per il tema trattato, non certo perché non faceva oggettivamente ridere (il feticismo di cui parlava Dargen, per altro, e già che sia catalogato come feticismo la dice lunga, si chiama menofilia, catalogato come parafilia, ovvero come una forma di anormalità psichica nella ricerca del piacere e della soddisfazione sessuale, tra le parafilie c’è, per intendersi, la necrofilia come anche la pedofilia).
La cosa, da studioso del tema, mi lascia ovviamente perplesso, seppur io vesta I panni appunto dello studioso, non certo dell’artista, e lungi da me scivolare nel campo del mansplaining. Per intenderci, non dico che ambirei a vivere e operare in un settore che, come quello dell’arte, che abbia da tempo affrontato l’argomento di petto, a partire da Red Flag di Judy Chicago, datato 1971, una fotolitografia che mostra un primo piano di una donna che si sfila un tampone interno intriso di sangue, prima di una serie di opere dell’artista femminista americana che ha affrontato il tema, pensiamo alla Menstratuion Bathroom dell’anno successivo, la cosiddetta MenstrualArt ha fatto molto per far implodere lo stigma verso le mestruazioni, tanti I casi di artiste che hanno usato direttamente il sangue mestruale per dipingere le proprie opere, penso a Vanessa Tiegs, ideatrice delle Menstrala, appunto, come tante quelle che hanno trasformato in performing art questa intenzione di abbattimento di stereotipi, da Poppy Jackson che ha occupato pacificamente una stazione di Polizia di Ipswich, dando la schiena al pubblico, lei completamente nuda, il sangue a colarle lungo le gambe, performance poi fermanta nel video Television Lounge, al Casting Off My Womb di Casey Jenkins DVAA, dove l’artista ha imbastito per ventotto giorni una sciarpa intingendo il filo di lana nella propria vagina, lasciando che le differenti colorazioni dei vari periodi, da quelli dell’ovulazione a quelli della mestruazione, cambiassero le sfumature del filo, tutte opere altamente divisive, figlie di un’arte che vuole disturbare e conturbare più che rassicurare, la maratona del 2015 cui prese parte l’artista e attivita Kiran Ghandi, senza indossare assorbenti, lasciando che il sangue macchiasse I suoi indumenti e le sue gambe aveva appunto lo scopo di destabilizzare, per accendere I riflettori su quanto le mestruazioni vengano vissute come un tabù, e non a caso questo atto ha riportato in auge il cosiddetto Free Bleeding, la pratica nata negli anni Settanta di non indossare nessun tipo di prodotto per l’igiene mestruale, lasciando quindi che il sangue fluisca liberamente durante il ciclo, come era disturbante l’istallazione My Bed di Tracey Emin, nome di punta dei cosiddetti Young British Artists, con quel letto sfatto, pieno di assorbenti macchiati di sangue e di contraccettivi usati, nominata a ridosso della fine del Novecento per il Turner Prize è in questo forse l’opera più iconica, non chiedo questo anche nella nostra musica leggera, ma almeno una presenza anche di facciata nel canzoniere pop, qualche brano da poter citare in un articolo a tema, o nel capitolo di un libro che affronti il corpo delle donne nelle canzoni. Non magari canzoni che siano così dichiaratamente divisive, le canzoni lavorano spesso su altri tipi di emozioni, pensate solo quanto l’amore o la malinconia siano più presenti della rabbia o dell’odio, per fare un esempio, ma almeno che affrontino l’argomento. Scrivo questo, apparentemente arrivando a questo punto sulla scia quasi di un flusso che mi sta trasportando senza che io sappia il punto di arrivo, ricordate sempre che la scrittura è finzione mediata, sapendo che in effetti una canzone sulle mestruazioni c’è, e no, non sto parlando di quel monumento all’ironia che risponde al titolo di Essere donna oggi di Elio e le Storie Tese, canzone che in effetti parlava di mestruazioni, ma non dal punto di vista di una donna, e sapendo anche, ma giuro che non è questo il motivo che mi ha spinto a scriverne, che in qualche modo sono stato la scintilla che ha innescato il motore che ha spinto alla scrittura e produzione di questa canzone, per la cronaca dal titolo Io, lei e le cose, della cantautrice trentina Maria Devigili. Canzone che affronta il tema con leggerezza, certo, ma senza girarci troppo intorno, e che è nato nel 2019, quando ho invitato Maria e una serie di altre cantautrici a ragionare su una ipotetica nuova edizione dell’album antologico Anatomia Femminile, di cui erano già uscite tre edizioni, rispettivamente nel 2011, nel 2014 e nel 2018, contenenti canzoni inedite di cantautrici chiamate a scrivere brani sul corpo delle donne. Maria ha deciso di scrivere Io, tu e le cose, in cui non parlava nello specifico di una parte del corpo femminile, per andare poi a raccontare altro, ma di occuparsi del grande assente dalle canzoni, le mestruazioni, per poi venirla a eseguire dal vivo a Sanremo 2019, durante il Festival della Canzone Italiana, a Attico Monina, a Casa Sanremo e in piazza Sirio Carli, su un palco della RAI, tre location che hanno ospitato la prima edizione sanremese del Festivalino di Anatomia Femminile, venticinque cantautrici a invadere la città dei fiori durante la più famosa kermesse musicale del Bel Paese. Canzone, Io, tu e le cose, che sarebbe poi uscita come singolo nell’estate 2020, in piena pandemia da Covid19, lei, Maria Devigili, bloccata in Arizona a girare il video in remoto, chiedendo l’aiuto di decine di amiche, chiamate alle armi a mandare loro contribuiti a tema. Io, tu e le cose, un titolo che richiama potentemente il classico di Orietta Berti Io tu e le rose, chiaro, ma che procede ovviamente su tutt’altra strada, divenendo a suo modo un inno non tanto e non solo al femminismo, quanto piuttosto all’accettarsi per quel che si è, mestruazioni incluse (e sfido io a trovare una canzone che citi le coppe mestruali). Un brano rock, per attitudine e scrittura, la chitarra elettrica a accompagnare la voce su un ritmo andante, a tratti quasi new wave. Una canzone che parla di mestruazioni, quindi, viva Dio, senza forzature, con la naturalezza che le mestruazioni dovrebbero portare con loro come bagaglio a mano.
Ora ci aspettiamo che dopo questo inno all’accettazione, brano che parte dalle mestruazioni, arrivino anche brani che parlino di peli pubici, se Free Bleeding è la pratica relativa al non contrastare il sanguinamento da ciclo il movimento Bring Back The Bush è quello che vede all’estero molte artiste e donne di comunicazione opporsi pubblicamente alla depilazione femminile, il brano Map of Tasmania di Amanda Palmer, canzone dance per macchine e ukulele che allestisce un parallelismo tra I peli pubici e, appunto, la mappa dell’isola della Tasmania ideale colonna sonora del tutto, o magari qualcosa che ci parli dei capezzoli femminili, discriminati rispetto ai loro simili maschili, oggetto a loro volta della campagna Free The Nipple, mossa dall’attrice e attivista Lina Esco, da noi nota per essere una delle protagoniste della serie TV S.W.A.T., e che ha visto Miley Cyrus tra le maggiori testimonial. Gli stereotipi si abbattono anche scardinando I tabù, credo, e cosa meglio di una canzone per farlo con leggerezza?