Nope: l’orrore, il cinema e la società dello spettacolo

Alla sua terza regia, Jordan Peele si muove tra horror, western e fantascienza per raccontare una società ossessionata dal filmare e dal guardare. Tra vecchio b-movie sugli alieni e film d’autore metacinematografico. Dall’11 agosto in sala

Nope

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Non si può dire sia stato il crescere del budget della sua terza regia Nope a gonfiare le ambizioni di Jordan Peele, che già con i suoi due precedenti film, Get Out e Us, aveva utilizzato il dispositivo horror per confezionare delle taglienti allegorie politiche su razzismo, disuguaglianze, conflitti di classe.

Nope vi aggiunge una scoperta vena autoriflessiva, per parlare della natura pervasiva dello spettacolo e di una società ridotta al codice binario del guardare ed essere guardati, Come già in Us, ad aprire il film è una citazione biblica – dal libro del profeta Naum: “Ti getterò addosso immondizie, ti svergognerò, ti esporrò al ludibrio” (nella traduzione inglese il riferimento è più esplicito “I’ll make you a spectacle”) – che regala al racconto una sfumatura più decisamente metafisica, da apologo morale. E sempre come in Us c’è un prologo. Lì ambientato nel 1986 quando, realmente, in America si svolse l’evento Hands Across America, in cui milioni di persone si unirono in una catena umana da una costa all’altra per raccogliere fondi per i senzatetto.

L’antefatto di Nope risale al 1998, quando Gordy, lo scimpanzé star di una sit-com, compie una strage sul set, cui sopravvive solo il piccolo attore di origini asiatiche Ricky “Jupe” Park, che rincontriamo molti anni dopo, adulto (Steven Yeun), gestore di un parco di divertimenti a tema western nel Sud della California. Tra le varie attrazioni, ne ha una particolarmente inquietante, un piccolo museo con i cimeli della tragedia cui è scampato, che lui racconta ai visitatori, ovviamente a pagamento – da notare che anche questa parte della sceneggiatura è ispirata a un evento reale, perché nel 2009, anche se non su di un set, uno scimpanzé noto per aver precedentemente partecipato a programmi televisivi aggredì una donna sfigurandola.

Vicini di Jupe sono OJ ed Em Haywood (Daniel Kaluuya e Keke Palmer) i quali, dopo la scomparsa in circostanze singolari del padre Otis (Keith David) – morto colpito da un corpo contundente precipitato dal cielo, sembra per un incidente aereo – hanno ereditato la sua attività, che da decenni fornisce cavalli addestrati al cinema. Un mestiere, ci tengono a sottolineare gli Haywood, che li ricollega idealmente alle origini della settima arte, dato che i due si dichiarano pronipoti di quel fantino senza nome – dicono loro di origini bahamensi –  che appare in un esperimento dell’epoca del precinema condotto dal pioniere Eadweard Muybridge, che realizzò tra gli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento una serie di brevissimi filmati scientifici per studiare il movimento al galoppo dei cavalli.

Senza più la guida del fondatore, l’attività degli Haywood langue: OJ è costretto a vendere diversi cavalli a Jupe ed è quasi sul punto di cedergli l’intero ranch. Intanto cominciano a manifestarsi eventi inspiegabili, continui cali di tensione elettrica, presunte apparizioni di oggetti non identificati. I due fratelli sperano di riuscire a filmarli, per ricavarne un “filmato da Oprah” da vendere a una cifra esorbitante alla tv. Per questo fanno installare delle telecamere di sorveglianza da un commesso di un negozio di elettronica che si appassiona alla vicenda (Brandon Perea), e cercano di coinvolgere un famoso operatore (Michael Wincott). Rapidamente, in quella landa semideserta della California meridionale, gli eventi precipitano.

Un piccolo gruppo solidale, ufo, provincia americana profonda, mescolanza disinvolta dei generi tra western, fantascienza e horror (sempre usato da Peele con intelligente parsimonia, inquietante ma senza effetti gore). Nope ha la struttura e l’incedere narrativo di un b-movie d’altri tempi (con anche riferimenti evidenti al cinema di Spielberg, ovviamente Incontri Ravvicinati Del Terzo Tipo), riletto però attraverso lo sguardo ambizioso di un autore che ancora una volta, anche se in chiave meno scopertamente allegorica, vuole raccontare aspetti fondamentali della società contemporanea.

Come ha sottolineata con divertita perspicacia il critico di Indiewire, questo è un film che potrebbe piacere tanto a Ed Wood – per la sua struttura pencolante da film di genere di scarsi mezzi – che a Guy Debord – per la riflessione insistita sulle pulsioni della società dello spettacolo, in cui non si fa altro, insistentemente, che osservare ed essere osservati, senza porre mai un freno, e un distinguo etico, a ciò che sia lecito o meno vedere e filmare. La prospettiva del racconto è scopertamente metafilmica, tenendo insieme cinema delle origini – con il dettaglio della cancellazione del contributo dei neri alla storia della settima arte, l’anonimato del fantino di colore –, la deriva violenta di quello spazio dell’orrore commerciale che è una sit-com di fine anni novanta, il desiderio degli Haywood di documentare la presunta presenza degli alieni – per guadagnarci, ma anche per il banale principio secondo cui esiste solo ciò che è filmato.

Western e fantascienza sono i generi per eccellenza della cultura americana perché ne scandiscono un tema essenziale, quello della frontiera, fondativo dell’identità e dell’ideologia a stelle e strisce. Perciò è giusto che, per raccontare l’ormai acclarata frontiera della società dello spettacolo nelle sue estreme propaggini, Jordan Peele si serva proprio di questi due dispositivi narrativi, riannodati attraverso una cornice orrifica che ne renda palese la mostruosità di fondo.

Coerente nell’assunto, va però detto che Nope non è altrettanto conseguente nella tenuta delle sue parti, che si affastellano piuttosto che giungersi narrativamente l’una all’altra. Si fatica, per esempio, a collegare la vicenda degli alieni col prologo dello scimpanzé assassino. Il film poi si risolve secondo lo schema consuetudinario appunto dei vecchi b-movie fantascientifici, col pugno di eroi, tra sacrificabili e sopravvissuti, che escogitano un piano per avere la meglio sulle forze del male.

Solo che invece di restare saggiamente nei confini degli ottanta-novanta minuti di un tempo, Peele gonfia a dismisura e “autorialmente” la durata, ben oltre le due ore, forte anche di una confezione di gran classe che può vantare un direttore della fotografia come Hoyte Van Hoytema. Lasciando comunque l’impressione, al netto della capacità di rendere espressivo il più piccolo dettaglio visivo, di un’opera che frana sotto la vastità della sua bulimia espressiva, procedendo più per accumulazione di suggestioni e temi alti che per lucidità e chiarezza analitica.

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