I sentimenti e le emozioni sono oggetti strani da trattare. Pensiamo di conoscerli bene, li riteniamo familiari al punto da darli spesso per scontati, ma a ben vedere finiamo per cadere costantemente negli stereotipi, nei cliché, andando a evidenziare non solo una nostra effettiva difficoltà nel decifrarli e quindi nell’affrontarli, ma anche una sorta di pregiudizio duro a morire. Pensateci, specie negli ultimi tempi la parola “emotiva”, associata alla modaiola “empatia” è entrata in campagne promozionali di varia natura, il rischio di finire dalle parti della resilienza davvero a un tiro di schioppo.
Tutto è emotivo o deve essere emotivo, come se di colpo, dopo decenni in cui si è ambito a una certa solidità coriacea, quasi marziale, il campo delle emozioni e quindi dei sentimenti fosse diventato centrale. Poco conta che tu sia a fuoco, centrato, o anche solo risolto, l’importante è che tu sia emotivamente attivo, intendendo, questo il punto, con emozioni una piccola porzione di questo mondo. Anche i pezzi grossi delle multinazionali abdicano a una certe inarrivabile solida alterigia, quasi da imperatore Irohito, per sposare in pieno la via dei sentimenti, le lacrime, i cuori in mano che neanche la Madonna dei sette dolori, un sentimentalismo talmente posticcio da farci rimpiangere il direttore naturale di Fantozzi.
L’empatia regna sovrana. Ovunque.
Prendiamo la musica. Di un cantante tecnicamente impeccabile ma che è poco in grado di emozionare si dice che è freddo, incapace di comunicare, più un mero mestierante che un artista. Solo che le emozioni che si prendono in considerazione, quelle che non ci “arrivano”, sono sempre e solo emozioni nel campo del sentimentalismo, in qualche modo legate all’amore, niente che induca neanche vagamente a un disagio, un turbamento, magari anche un turbamento che tiri in ballo il desiderio, certo, una carnale passionalità, le emozioni sono solo emozioni che in qualche modo si possono ricondurre nell’alveo dell’amore, certo, anche evocandone l’assenza, l’abbandono. Come se la rabbia non fosse un’emozione. Come se non lo fosse l’odio. La malinconia, con tutte le sue sfumature esotiche, dalla più nota saudade alla più recente morabeza, introdotta nel nostro vocabolario da Tosca, ci spinge a pensare, magari anche a vivere, all’insegna di uno struggimento spesso passivo, noi incapaci di colmare un vuoto, sia esso legato persone, luoghi o anche solo a un passato che spesso neanche abbiamo realmente vissuto. Questo quando volendo potremmo specolarci sul mai abbastanza celebrato rancore, covando vendette laddove invece siamo usi lasciarci andare a rimpianti o addirittura rimorsi.
Il desiderio, che dell’assenza di stelle è celebrazione filologica e dell’assenza dell’oggetto del nostro desiderio la celebrazione tout-court, finisce per diventare sempre una spinta a trovare qualcuno o qualcosa in grado di curarci ferite che a volte ci siamo inflitti da soli, invece che a auspicare una rivolta, anche emotiva, perché no?, sanguinaria e definitiva. Sentiamo sempre più spesso, in questa epoca di polarizzazione pret-a-porter nella quale viviamo, parlare di dittatura del pensiero unico, di omologazione dei punti di vista, ma la sensazione, ancora una volta il sentire laddove dovremmo parlare di vedere, è che se di dittatura si deve in effetti parlare, sia dei sentimenti, delle emozioni, il pensiero giorno dopo giorno lasciato indietro, perso dietro l’ultima curva.
E così ci ritroviamo spesso, se non sempre, a lasciarci cullare in attesa che quello che in fondo non è mai stato reale arrivi a consolarci, rassicurarci, autoconvinti come siamo di essere dalla parte della ragione, se non quella lucida che riconduciamo alla mente, almeno quella dolce e pulsante che si trova dalle parti del cuore.
Ora, è evidente che fare un elogio della rabbia, tanto più in tempi di guerra e con la deriva d’odio che ha preso d’assalto il mondo dei social sarebbe quantomeno fuoriluogo, se non proprio un passo falso, ma credo che disconoscere il ruolo che la rabbia ha e ha sempre avuto nel muovere i fili che reggono gli uomini sarebbe uguale a negare l’evidenza, come lo sarebbe stigmatizzare aprioristicamente la violenza e il ruolo della violenza nella storia del mondo. Dato per assodato questo, e quindi almeno sul piano teorico schierato in tutto e per tutto dalla parte di turbamento, disagio, odio, rabbia, rancore e tutta quella gamma di sentimenti considerati negativi di cui la nostra vita è comunque infarcita, vorrei provare a cercare di capire perché, in musica, la sola forma di emozionalità ritenuta degna di asilo, anzi, necessaria per poter essere considerata coi requisiti minimi sia quella concernente l’amore e l’amore risolto, quindi in una forma del tutto rassicurante, e l’amore incompiuto, si tratti di amore perso o non ancora trovato, quindi malinconico, certo, ma possibilista, non dico rassicurante ma neanche disperante. Come, per altro, se l’amore nella vita reale, quella che le canzoni per mimesi provano a rappresentare, fornendoci le parole adatte per dire quel che non sappiamo dire, a volte anche per provare quel che non sappiamo di aver provato, offrisse giusto un paio di soluzioni plausibili, semplificate, schivando quasi con ribrezzo la complessità e comunque riportando tutto a un questionario con risposte multiple, la A la B o la C, senza opzioni aggiuntive.
A muovere il tutto, quindi, almeno apparentemente, una visione consolatoria dell’arte, o quantomeno dell’intrattenimento, chiamare tutto arte indistintamente è davvero troppo, come di chi anche ragionevolmente ritenga che sia sempre da inseguire l’idea di curare le ferite che la vita ci infligge, non prendendo in considerazione l’ipotesi che a volte le ferite possano servire per tagliare una cancrena, aprire uno spiraglio dal quale far passare aria, appunto, salvarci. Chi soffre di aritmia cardiaca, per dire, a volte viene sottoposto a una forma invasiva di intervento, una defibrillazione che fermi i battiti cardiaci e li faccia poi ripartire seguendo il giusto ritmo, sto ovviamente trattando con parole inadeguate un argomento che richiederebbe termini precisi, scientifici, come nelle serie tv cosiddette medical ci viene mostrato molto spesso, una scarica elettrica al solo scopo di far ripartire un cuore che si è fermato, situazione evidentemente non piacevole alla quale segue però un ritrovato stato di benessere.
Ecco, tenderei a inserire tra la musica capace di scatenare emozioni, anche emozioni incontrollate, pure tutta quella musica che gioca sul disagio, che ci provoca turbamenti anche violenti, penso all’heavy metal, alla musica dark, faccio esempi facilmente decifrabili da chiunque, anche da chi non pratica questi generi, come a tutta quella musica elaborata almeno parzialmente dalle macchine e atta a incidere su piani non razionali, la trance, la house in tutte le sue variabili, perché è troppo semplice circoscrivere tutto al giardinetto del romanticismo, e personalmente preferisco ascoltare il compianto Peter Steele dei mai abbastanza celebrati Type O Negative che mi devasta le interiora intonando il sabba malefico di Black N° 1 che mille ballad di quelle buone per ballarci su i lenti alle feste delle medie.