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Home Trending News

Il giornalista non serve più, è finito, un residuo novecentesco

È diventato impossibile fare questo mestiere in ostaggio degli sconosciuti senza faccia e senza nome, gente che come orizzonte ha la slot machine della metro alle otto di mattina

di Max Del Papa
26/05/2022
INTERAZIONI: 104

INTERAZIONI: 104

Photo by shutterstock

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Certo la propaganda l’hanno oliata bene. All’indomani della strage di Bucha tutti i putiniani coperti, mascherati dietro il dito delle loro domande capziose, a ripetere: è una messinscena. Proprio così ha diceva Capuozzo, diceva qualche bambozzo che va in Donbass al soldo di chi offre di più, dicevano i pacifisti pro invasore. Una balla, non c’è mai stata, sono cadaveri di frigorifero. Poi sono passati ad insinuare: se la sono fatta gli ucraini. Adesso che anche il New York Times, testata di sinistra, antitrumpiana, faziosa il giusto, ha mostrato il video dei condannati in fila, giustiziati come in un lager, tutti: e tu ti fidi del NYT? Ti fidi delle riprese, delle intercettazioni audio, dei satellitari, delle foto certificate, dei filmati? Ma no, tutte fake news, tutta propaganda. Invece le verità russe e cinesi, quelle sono indiscutibili. Sì, hanno fatto davvero un buon lavoro con la propaganda, agevolato, va detto, da un personaggio come questo Zelensky e dai mammasantissima dell’Unione Europea, avamposto del suicidio occidentale. Ma nessuna propaganda attecchisce così rigogliosa senza il terreno fertile della malafede, della mancanza di logica, della stupidità. Dicevano all’inizio della pandemia che ne saremmo usciti migliori. Ne siamo usciti ancora più bruti, più vili: “Chi se ne frega dell’Ucraina, noi abbiamo il greenpass”. E sempre più sono i “liberali” che aspettano il tiranno Putin per “essere liberati”.

La degenerazione cognitiva è figlia di quella morale e questa precede il Covid, se mai ne esce rafforzata nella meschinità, indebolita nella decenza. Ma c’era già e aspettava solo di sgorgare, cosa che i social hanno consentito in maniera copiosa. Più si dilata la pressione del politicamente corretto che proibisce di parlare, di pensare, di sorridere e più, si direbbe per reazione, sale la rabbia becera, la merda nel ventilatore dei senz’arte né parte, i frustrati, i disperati che non sono più tenuti a mettersi davanti a un foglio bianco, riempirlo di costrutti logici, operazione che gli riusciva improba, imbustare, affrancare, cercare una casella postale, spedire e sperare, invano, di ritrovarsi pubblicati. Oggi basta un clic: sei una merda, un infame, e partire con la catena di sant’Antonio della diffamazione. Rigorosamente senza nome e senza faccia.
A chi scrive è capitato di sentirsi augurare la morte prima perché in fama di novax, poi per essersi vaccinato; di venire esaltato in quanto fiero oppositore del greenpass e quindi denigrato, dagli stessi, per avere espresso dolore dopo l’invasione russa dell’Ucraina: “Quando scrivi di lasciapassare sei lucido, quando dai addosso a Putin sei deficiente”. Così, senza timor del ridicolo. Poi ci sono i pedanti che vogliono spiegarti che loro sono meglio di te e ti infliggono non richieste lezioncine di storia, strampalate il giusto, in cui infilano Nabuccodonosor, Gesù, la Bibbia, i gay, la pedofilia, la degenerazione dell’Occidente di cui Putin sarebbe, chissà perché, l’unico baluardo, in una maionese impazzita e strampalata. La logica è la seguente: “I russi hanno commesso atrocità? Sì, ma anche gli ucraini. Quindi siamo pari. Da noi i novax subiscono vessazioni anche peggiori (sic!) e quindi è ovvio che la gente non creda più alla democrazia”. E che gli vuoi rispondere?

È diventato impossibile fare questo mestiere in ostaggio degli sconosciuti senza faccia e senza nome, gente che come orizzonte ha la slot machine della metro alle otto di mattina. E ci sono giornalisti che decidono cosa scrivere e cosa tacere in funzione di questi: si sentono influencer e come tali agiscono, sempre attenti a non scontentare nessuno. Ma come lo svolgi un ruolo critico, diciamo pure la parolaccia, da intellettuale, che secondo Pasolini doveva mettere in crisi tutti senza riguardo per nessuno? Come ti muovi in mezzo a un pubblico che non vede l’ora di scannarsi sulla guerra come sul derby, sui vaccini come sul clima e, nel nome dello scetticismo virtuoso, evoluto sposa le peggiori bizzarrie? C’è un tale che manda avanti un sito, Butac, con cui si arroga il diritto di sindacare gli articoli di chi scrive per mestiere, insomma un frustrato; e questo non trova di meglio che difendere la fidanzata di un cantante che a 25 anni si crede Emily Dickinson siccome ha fatto una raccoltina di poesiole vaginali. Come fai a lavorare in una situazione manicomiale così? E allora capisci che sei morto, fai un mestiere che non esiste più e neanche tu esisti più, sei come il pollo che continua a correre dopo che gli hanno tagliato la testa. Un residuo novecentesco, buono come sagoma da prendere a pallate.

L’ultima mi è successa dopo un articolo sul sito di Nicola Porro in cui prendo in giro gli scandalizzati per le battute da trivio nel calcio, come il famigerato cartello sul pullman del Milan campione d’Italia verso i rivali interisti: “La Coppa Italia mettetevela nel culo”. È concepibile, scrivo, il tifo senza tifo, posto che il calcio è spettacolo popolare che risale, volendo, fino alle Atellane, alla tradizione volgare dello sfottò, della trovata becera che si riconosce come tale? Apriti cielo! Tutti a stracciarsi le vesti, no, questo non lo puoi dire, le parole sono importanti, poi i tifosi si traumatizzano. I tifosi? Per insegnarmi che non è accettabile la mia difesa della scurrilità da curva mi hanno scritto: i tuoi articoli ficcateli su per il culo, brutta merda, hai rotto i coglioni, stronzo, ti prenderei a calci in culo, bastardo, che ti venga un cancro. E meno male che dovevamo uscirne migliori, pensa se peggioravamo.


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