Me lo ripeto spesso, parlando da solo come un tempo si diceva facessero i matti, un tempo in cui era possibile dire “matti” senza finire nelle tenaglie della censura, intendo, non necessariamente un tempo migliore, per certi versi. Me lo ripeto spesso, palando da solo come un matto, quindi, dichiaro l’utilizzo di un modo di dire antico che nulla ha a che vedere con la malattia mentale, parlo di me, del resto, e me lo ripeto consapevole che, sempre e per sempre, questo mio dire resterà vano, inascoltato, non tanto perché me lo dico da solo, e parlare da soli in genere non porta a risposte sensate, quanto piuttosto perché, lo so già in partenza, poi cambierò spesso idea, anzi, il mio ripetermelo da solo è una sorta di sprone a rispondermi, sempre da solo, che in fondo ne vale la pena, che lo sforzo è minore della resa, che anche fosse maggiore potrebbe essere il mio modo per dare un senso a questo mio fare, questo mio scrivere, questo mio dibattermi come uno scalmanato per provare a farmi sentire e nel farmi sentire, questo il punto, far sentire quella musica che ritengo sia meritevole di attenzione e che, questo non lo ritengo io, è un fatto, invece attenzione ne ha poca, perché viviamo in un periodo orrendo, perché viviamo di frantumazione dell’attenzione, perché così va il mondo.
Me lo ripeto spesso, parlando da solo, forse sarebbe il caso che la smettessi di occuparmi con tanta tenacia e ostinazione di cantautrici. Perché, facendolo con la costanza e la dedizione con cui lo faccio da oltre dieci anni, rischio che le mie parole vengano confuse per enfatiche, come di chi si trovi per ragioni varie a dover parlare bene di qualcosa attinente a se stesso, e anche perché, facendolo in alternanza col mio provare a scardinare certi meccanismi marci, come certa musica scadente ammantata di allure e successo, sembra che io tenda a creare due fazioni, contrapposte e in guerra tra loro, chiedendo, di conseguenza anche a chi legge di prendere una posizione radicale, o con noi o contro di noi.
Ma soprattutto me lo ripeto spesso, parlando da solo, perché non ho veramente idea se in effetti il mio dire porti a qualcosa di più che un po’ di attenzione, lettori, spesso lettori fedeli che, incuriositi, si apprestano all’ascolto, gratuito, in rete, magari, è capitato, qualche promoter o discografico che poi le contatta, questo sì utile, ma senza con questo scalfire quei meccanismi marci di cui sopra, senza intaccare la macchina, la stessa macchina contro la quale mi schieravo dentro la pancia della bestia stessa quando proponevo il mio format Monina Against the Machine a Rtl 102,5.
Me lo ripeto, tentenno, ma poi, puntualmente, ci ricasco. E ci ricasco perché quando incappo nel talento, e tanto più nel talento che se ne sta ancora abbastanza sommerso, magari anche per sua stessa volontà, nessuna reale intenzione di fare i conti con le storture di quel mercato che impone regole senza senso, o piuttosto perché così ha deciso il destino, per tutti i motivi elencati qui sopra, non credo si possa far altro che accendere un riflettore, e ben venga che questo riflettore appaia ancora più potente in virtù delle stroncature ai BIG che sfornano musica discutibile o al sistema mangiato dalle termiti.
Per venire a noi, è uscito, dopo una attesa che ha dell’incredibile, oggi, qualcosa come sette anni e passa, il nuovo album, il secondo, di Chiara Vidonis, La fame. Un lavoro che merita tutte le attenzioni del caso, le mie, sicuramente, ma anche e soprattutto le vostre, se siete tra quanti hanno a cuore la bella musica.
Chiara ha una scrittura molto personale, una cifra riconoscibile anche quando decide di uscire da quella che potrebbe essere la sua confort zone, al punto che, e qui magari potrebbe sembrare io mi stia contraddicendo ma così non è, col tempo la sua confort zone è divenuta meno delineata, coi confini ampi del latifondo, gli spazi sconfinati dell’Australia, insomma, ci siamo capiti. Stavolta Chiara, tornata sulla scena del crimine talmente tanto tempo dopo l’esordio da lasciar pensare, fossimo nel campo del crimine, più a un emulatore che allo stesso serial killer, certo, anticipando il ritorno con una collaborazione con Elisa Bonono, Nuvole, e un paio di singoli importanti, per resa e qualità, Lontano da me e Quello che ho nella testa, facendosi accompagnare da Karim Qqru degli Zen Circus, con risultati che a dir poco sono sorprendenti. Se da una parte, infatti, il suono si sposta su versanti decisamente più elettronici di quanto non ci si sarebbe potuti aspettare, ritmiche in apparenza fredde che però contribuiscono a creare atmosfere profonde, di una cupezza pensosa, inquieta, dall’altra la scrittura quasi bucolica di Chiara resta lì, visibilissima. Intendiamoci, non ho della natura, e quindi del bucolico, un’idea rassicurante, tutta fiori in bocca e ore passate stesi su un prato disconnessi col presente, come il Leonardo Di Caprio del vecchio spot della Telecom, guardo più alla natura con il sopracciglio innalzato di chi si aspetta prima o poi un conto salato, penso alla Distratti di Cristina Donà, nome ovviamente non speso qui a caso, di chi ne ha rispetto ma anche timore, forse con la coscienza un po’ sporca, per questo uso il termine bucolico parlando di lei, Chiara Vidonis, e del suo La fame, sapendo di praticare una forzatura, ma una forzatura sensata, legittima. La fame, infatti, esattamente come il deSidera di Cristina Donà, artista dalla cantautrice triestina evidentemente molto amata, prova a raccontarci l’oggi, un oggi che, Tutto il resto non so dove, il suo esordio è talmente lontano nel tempo, anno del Signore 2015, che si suppone la manciata di canzone nuove siano nate negli anni, non certo solo negli ultimi tempi, è un oggi che guarda lontano, inquadrando la contingenza nell’universale, con gli occhi benevoli di chi ha pietà di noi, ma non è neanche troppo intenzionato a farci poi chissà quali sconti. La fame è un lavoro importante, che non vuole fare i conti col mercato, seppur abbia le note, le parole e i suoni che un mercato attento dovrebbe saper attendere, dove le melodie lancinanti della cantautrice di mescolano a suoni stranianti, spigolosi, laddove la voce è in grado di spaziare dal dolce al metallico, quasi, regale. Meno rock che in passato, se per rock di intende quella cosa polverosa che oggi vorrebbero darci a intendere sarebbe tornata di moda, ma che è invece quasi hardcore nella filosofica straight edge di chi mette a nudo sentimenti e le proprie intimità, d’animo e fisiche, quindi decisamente più rock di quanto chitarre distorte e quattro quarti potrebbero lasciar intravedere. Io non ho idea di quali siano i parametri che vi spingono a ascoltare un nuovo lavoro, né su quali basi scegliete che artisti cominciare a seguire. Ma se siete tra quanti hanno a cuore la bella musica e soprattutto tra quanti in un disco cercano profondità e vita vera, non solo vacuo intrattenimento, beh, La fame è quello che stavate cercando e Chiara Vidonis un nome da scrivere in stampatello e grassetto sulla vostra lista delle cose belle che la vita vi ha posto a sorpresa di fronte.