È Stata la Mano di Dio comincia con una inquadratura che si avvicina a Napoli dal mare, testimoniando sì l’affollamento dei palazzi abbarbicati sulle colline di Posillipo e del Vomero, ma incorniciandoli nell’abbraccio del golfo, che ingentilisce lo sconcerto edilizio e lo riconduce al sentimento che la grande bellezza del panorama naturale genera. Invece, nel capo d’opera di Francesco Rosi Le Mani Sulla Città, fin dal modo in cui Napoli viene ripresa prevale una forma di gelo antisentimentale, con lo sguardo del regista ben attento a non farsi sedurre dalla sirena Partenope e dall’incanto meridiano.
Sui titoli di testa del film, infatti, le riprese rinunciano alla visione d’insieme, e riproducono porzioni di città in inquadrature aeree piuttosto ravvicinate che rendono inidentificabile la geografia della città, facendo spiccare solo l’ammasso informe di edifici di cemento tutti uguali, con una densità costruttiva asfissiante, cui la colonna sonora volutamente dura e sgraziata di Piero Piccioni – con termine mutuato dall’architettura verrebbe da definirla “brutalista” – offre un commento che rende la sequenza ancora più opprimente.
Le Mani Sulla Città, che vinse nel 1963 il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, resta insieme al precedente Salvatore Giuliano l’esempio più alto e compiuto del cinema civile di Francesco Rosi, frutto di una metodologia a metà tra cura documentaria di riproduzione della realtà e racconto di finzione, sempre memore dell’istinto di verità insito nella lezione neorealista – giovanissimo, il regista napoletano era stato assistente di Luchino Visconti per La Terra Trema (1948).
Il film fu il frutto di una lenta gestazione, compiuta in primo luogo da Rosi insieme all’amico di sempre, lo scrittore Raffaele La Capria, cui poi si aggiunsero in sede di sceneggiatura il giornalista Enzo Forcella (firma del migliore quotidiano dell’epoca, “Il Giorno”) ed Enzo Provenzale. Gli autori ricostruirono la storia della speculazione edilizia a Napoli e il contesto umano e politico che l’aveva prodotta, frequentando le riunioni del consiglio comunale, da cui poi trassero anche uno dei protagonisti de Le Mani Sulla Città, il non attore – secondo un principio del vecchio neorealismo – Sergio Fermariello, autentico consigliere del partito comunista. Nel film diventa De Vita, rappresentante del gruppo di sinistra a palazzo San Giacomo che cerca di contrastare il malaffare – ispirato a un’altra figura con cui Rosi e La Capria si erano confrontati, Luigi Cosenza, ingegnere autore di alcuni dei migliori esempi di architettura razionalista a Napoli nonché ex consigliere del Pci, già autore di un piano regolatore nel 1946 poi messo da parte dalla giunta presieduta da Achille Lauro.
Già, Lauro. ’O Comandante, armatore e sindaco populista di Napoli negli anni Cinquanta e ancora nel 1961, è l’uomo cui è storicamente legata la stagione della speculazione edilizia, in cui la città crebbe su sé stessa in una febbre edificatoria (e d’arricchimento) in deroga ai regolamenti – anche se va sempre ribadito che negli anni Sessanta, finito il suo mandato, durante le sindacature della Dc si continuò a edificare a ritmi persino più sostenuti (almeno cinque volte tanto).
Lauro è uno dei convitati di pietra che aleggia su Le Mani Sulla Città, benché non se ne faccia mai il nome. In effetti il film rinuncia a fare nomi e cognomi di chicchessia, fedele al principio secondo cui, come recita la celebre didascalia finale, “i personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”. Per questo anche i partiti che si confrontano e s’accoppiano in maniera assai poco giudiziosa sono semplicemente, come in un teorema o un apologo sul male e la corruttibilità umana, la Destra, il Centro e la Sinistra, ovviamente riconoscibilissimi.
Come riconoscibile è anche Edoardo Nottola (Rod Steiger), palazzinaro e politicante che vuole diventare assessore all’edilizia per fare il bello e il cattivo tempo con le sue imprese, ispirato in parte alla figura del costruttore Mario Ottieri. La scelta di evitare nomi, citando pochissimo persino quello di Napoli, risponde inoltre alla volontà di costruire un racconto che, sebbene documentato e radicato in una realtà definita, allo stesso tempo funzioni come un discorso più ampio sulla nazione e su pratiche consociative non ascrivibili a un luogo preciso.
Quel luogo, però, è indiscutibilmente Napoli, con la sua geografia, dinamiche, carattere e stili di vita. C’è una minuziosa fedeltà alla sostanza delle cose e degli uomini ne Le Mani Sulla Città, grazie anche alla consulenza di Massimo Rosi, fratello di Francesco indicato nei titoli di testa come architetto del film. È lui a coreografare il crollo della palazzina fatiscente nel centro della città, da cui parte tutta la vicenda – non riprodotto con modellini in scala, ma realizzato per davvero. È lui a ricostruire al Centro Sperimentale di Roma la Sala dei Baroni sede del consiglio comunale, e a costruire il plastico che campeggia in una delle prime scene del film, in cui alla presenza del ministro viene presentato il faraonico progetto di sviluppo della città nelle periferie – ovviamente su suoli un tempo rurali e trasformati in edificabili, decuplicandone il valore, grazie ai magheggi di Nottola.
Persino le abitazioni dei protagonisti raccontano i personaggi. Il curiale De Angelis (Salvo Randone), mellifluo e al fondo cinico leader del partito di Centro (“In politica l’unico peccato è quello di essere sconfitti”, sentenzia), vive in una sorta di pinacoteca barocca, tra immagini sacre e dipinti di Luca Giordano, che riflette l’idea della continuità del potere temporale e spirituale che il suo partito incarna. L’immagine del leader della destra Maglione (Guido Alberti), ritratto mentre, a bordo della piscina del suo appartamento, voga da fermo su di una finta canoa, offre invece “una grottesca raffigurazione del potere gestito dalla Destra: creare apparenze di movimento perché tutto in effetti resti immobile e fermo, in un ordine clientelare paternalistico e consolidato”, come ha scritto Mario Pezzella.
In questo panorama gattopardesco, Nottola rappresenta l’uomo del cambiamento. Infatti il suo quartier generale, attorniato da gigantografie aggressive che rilanciano i profili vertiginosi e taglienti dei palazzi di nuova edilizia, è installato all’ultimo piano del modernissimo grattacielo della Cattolica assicurazioni progettato da Stefania Filo Speziale a due passi dal municipio di Palazzo San Giacomo, che negli anni Cinquanta fu al centro di stroncature e polemiche interminabili, trasformato ingenerosamente, anche a causa del film, nell’imperituro simbolo della speculazione edilizia.
Gli spazi in cui si muove raccontano l’alterità di Nottola, la sua voracità rapace, ma anche la volontà di cambiare di segno la storia millenaria e immobile di una ex capitale spagnolesca ammalata della sua passata nobiltà che l’ha, ricordando La Capria, illusa e ferita a morte. Rosi il personaggio perciò lo racconta nella sua ambivalenza, cogliendone la natura contraddittoria e multiforme. “Questo speculatore – dichiarò il regista – io lo considero un forza bruta, dipende dalla società utilizzarlo come forza positiva invece che negativa. […] Una democrazia se vuole essere pluralista e non voglia soffocare le iniziative, le spinte individuali e personali, deve essere lei a fornire l’equilibrio politico tra le varie forze, così da governare e indirizzarle affinché possano produrre il bene anziché il male”.
Grazie ai personaggi esemplari, restituiti nella loro natura di simboli sovraindividuali e insieme nell’esattezza antropologica della loro appartenenza a categorie definite, a distanza di ormai sessant’anni Le Mani Sulla Città risulta molto più di una semplice requisitoria giudicante sul malaffare. Il film entra nelle logiche del potere seguite, a partire dal crollo dell’edificio, lungo il filo rosso che annoda cause, concause ed effetti che quell’incidente innesca, sempre all’insegna degli appetiti di uomini, partiti e istituzioni, cui la burocrazia lenta e formalistica offre una copertura ideale a illeciti che non diventano mai crimini perseguibili.
Insieme, l’architettura logica del racconto è continuamente sollecitata dalla forza tellurica della città, sempre sul punto di esplodere sotto il peso del suo sovraffollamento. A parte quelle relative all’insistita solitudine dell’uomo nuovo Nottola, quasi tutte le sequenze sono scene di massa. Rosi è “un regista di folle”, scrisse Alberto Moravia: quelle che si agitano nel crollo dell’edificio, e poi nel successivo sgombero degli abitanti del vicolo, o nel palazzo del Comune pieno di traffichini, questuanti e madri di famiglia cui il sindaco di destra con gesto ostentato distribuisce soldi (“consigliere de Vita, avete visto come si fa la democrazia?”).
È la rappresentazione di un luogo ingovernabile, che segue ritmi e regole premoderni, molto più antichi della rabberciata e immatura democrazia che dovrebbe gestirli. La quale, per colpa di classi dirigenti conniventi, è preoccupata molto più dell’autoriproduzione del potere che del governo della cosa pubblica. E Napoli, infatti, non è mai stata ritratta in modo così cupo, con la fotografia spigolosa come un blocco di cemento di Gianni Di Venanzo, notturna, contrastata, senza scorci marini a dar respiro al disastro attestato dal groviglio urbanistico. Una città segnata da mali endemici di lunga durata, tra i quali Nottola rischia di non costituire nemmeno il più grave.