Non è ancora uscito, sarà al cinema dal 24 novembre e poi dal 15 dicembre su Netflix, e già È Stata La Mano Di Dio ha percorso un bel tratto. Gran Premio della Giuria a Venezia, candidato italiano all’Oscar, tre nomination agli Efa, gli Oscar europei. Il film è stato salutato come il ritorno di Paolo Sorrentino a Napoli, dove fu ambientata solo la sua opera d’esordio, L’Uomo In Più.
Quest’affermazione non è neanche del tutto esatta. Perché in quel film, come il regista non manca di ricordare nella conferenza stampa di lancio di È Stata La Mano Di Dio svoltasi ovviamente a Napoli, la città costituiva una presenza laterale, forse anche per un rapporto non conciliato con i luoghi, che l’allora trentenne regista cercava antagonisticamente di nascondere invece che mostrare. Viceversa Napoli è un elemento costante di diversi suoi lungometraggi. A partire da quel personaggio proverbiale che è Jep Gambardella, accidioso flâneur partenopeo dalla faccia divisa in due, come scrisse con notevole intuizione Anthony Lane sul New Yorker, mezzo imperatore romano decaduto e mezzo Pulcinella. E Napoli è una traccia inequivocabile nel sottovalutato dittico Loro, con un Berlusconi molto partenopeo e il commovente ricamo della Scétate cantata da Sergio Bruni a scolpire l’atmosfera del film.
Certo, il sentimento della napoletanità o della napolitudine esplode in È Stata La Mano Di Dio, sin dall’apertura in cui, rendendo immediatamente protagonista la città, Sorrentino riprende l’iconico lungomare, mescolando contraddittoriamente la silenziosa bellezza meridiana del mare all’affocata, sconcertante palazzata della speculazione edilizia, una teoria interminabile di edifici abbarbicati sulle colline, che sembrano quasi rovinare sul golfo.
È questa contraddizione a cadenzare il film, nel continuo andirivieni tra la ricerca di vicinanza, l’abbraccio caloroso in cui riassaporare, tornando agli autobiografici anni Ottanta dell’adolescenza sorrentiniana, il tepore primigenio della famiglia perduta. E dall’altro la necessità di dover frapporre una distanza rispetto a quelle origini – letteralmente – mortifere, che rischiano di stritolarlo nel liquido amniotico d’una dolcezza accogliente quanto improduttiva.
Forse anche per questo quando Saverio (Toni Servillo), padre del protagonista adolescente Fabietto (doppio sorrentiniano interpretato da Filippo Scotti), per fare gli occhi dolci alla moglie Maria (Teresa Saponangelo) le recita una poesia di Eduardo De Filippo, quei versi nemmeno si sentono, sovrastati dal rumore straniante della voce metallica, riprodotta da un marchingegno elettronico, dell’attempato fidanzato di una loro parente. Non è più possibile farsi cullare dalla poesia, dalla retorica della lingua gentile napoletana. È tempo semmai di ridestarsi, per capire cosa farci con la propria vita.
Persino il richiamo al nume tutelare Diego Armando Maradona, sin dal titolo di È Stata La Mano Di Dio, è più equivoco di quanto non appaia. Sì, è vero, come dice Alfredo (Renato Carpentieri) a Fabietto, che è stata l’intercessione del Pibe de Oro a salvarlo da morte certa, quel giorno che il ragazzo ha scelto di non seguire i genitori alla viletta di Roccaraso – dove muoiono intossicati dal monossido di carbonio – preferendo andare a vedere una partita del Napoli. Eppure quando Diego segna il gol più famoso della storia del calcio – non quello di mano, l’altro, scartando mezza Inghilterra – quasi non se ne accorge nessuno, perché nel frattempo buona parte dei familiari sono impegnati in una rissa raccapricciante. E addirittura quando il Napoli vince lo scudetto, il primo in sessant’anni, l’ormai orfano Fabietto spegne la televisione, perché ha ben altro a cui pensare.
La famiglia è l’alfa e l’omega di È Stata La Mano Di Dio: lo spazio di una sorta di felicità totale, smemorata e amorfa, dalla quale lo strappo del dolore risveglia in maniera bruciante, obbligando il protagonista a ripensarsi dalle fondamenta. Mettendo anche nella giusta prospettiva la napoletanità. Che è dispersiva e paralizzante, come mostra la sequenza iniziale della città bloccata in un ingorgo con piazza Plebiscito ingombra di auto – memore dell’8½ felliniano. Ed è pure intrisa di malignità questa napoletanità, come dice la vicina di casa settentrionale, esasperata dall’ennesimo scherzo telefonico di Teresa: “Non è vero che siete simpatici. Voi napoletani siete cattivi a livello interiore!”. Una verità scomoda, il nutriente, necessario ribaltamento d’uno stereotipo. Dopo il quale, però, Sorrentino non si sente certo liberato dal presunto morbo partenopeo. Perché sa bene, come ribadisce a Fabietto il regista Capuano (Ciro Capano): “Nessuno inganna il proprio fallimento, e nessuno lascia questa città”.
Qui non si tratta di puntare alla missione impossibile di recidere le radici o abbandonare Napoli, quanto di osservarla alla giusta distanza, in una prospettiva corretta. E quindi la prima cosa da fare è dismettere la retorica del mascheramento e dei giochi di specchi tra finzione e verità, nei quali il maestro di stile Sorrentino è insuperabile, abbandonandosi a un’estetica lineare e dimessa, che mira sorprendentemente alla trasparenza e alla sincerità.
È Stata La Mano Di Dio è una storia sul dolore e la perdita. Per questo non può rifugiarsi nei preziosismi visivi e nemmeno nella ricerca di moventi e letture psicoanalitiche posticce della sofferenza, che resta un dato concreto e materiale. Da riprendere senza nessuna pornografia compiaciuta del dolore – quando Fabietto finalmente piange viene inquadrato di spalle –, però mossi dalla volontà di raccontare le cose per quelle che sono, nella loro nudità insensata e sconcertante – ragion per cui il rimpianto più grande è quello che non gli facciano vedere i corpi dei genitori.
La vita come viene raccontata nell’ultimo film di Sorrentino non è un percorso lineare nel quale a un certo punto giunge l’elaborazione del lutto a riportare il sereno, bensì è quell’impasto informe in cui il riso si mescola col pianto e le situazioni divertenti – che sono numerose in È Stata La Mano Di Dio – con la tragedia più cupa. E ci sono solo la perseveranza, come a Fabietto insegna il maestro involontario Maradona, e il coraggio di non sottrarsi al conflitto, come gli dice Capuano, quali mezzi attraverso cui trovare una precaria via d’uscita dal labirinto – o forse un modo per abitarlo in maniera più consapevole.
E sebbene queste lezioni siano fondamentali per il protagonista, non c’è nessuna figura sostitutiva a rimpiazzare la perdita della madre e del padre. Nemmeno Fellini, che aleggia costantemente tra le pagine del film, più che altro come specchietto per le allodole per spettatori pigri. Semmai, ove proprio si volesse individuare una fonte d’ispirazione, bisognerebbe riferirsi a un altro nume tutelare, che Sorrentino sempre in conferenza stampa cita a proposito del film, Massimo Troisi. La cui disarmante linearità stilistica affiora distintamente nel finale di È Stata La Mano Di Dio: che è di una semplicità quieta, prefigurando senza fanfare e retorica un futuro possibile. Sfuggendo così anche al ricatto della nostalgia, un sentimento assente da questo film bello e sorprendente.