So che potrei risultare ripetitivo. Forse addirittura ossessivo, o ossessionato. Mi occupo spesso di un argomento, e nell’occuparmene mi soffermo, più del necessario, stando ai canoni della comunicazione contemporanea, veloce, smart, frrammetnaria, simpatica, su un medesimo sviluppo. Come in un’ossessione, appunto. Chiedo di prestare attenzione, pretendo attenzione. Chiedo anche di portare pazienza, proprio mentre tutto intorno il resto scorre veloce, velocissimo, spesso senza pretendere di lasciare traccia. Risulto quindi arrogante, uno che pensa di avere qualcosa di degno di nota da dire.
Il fatto è che io ho qualcosa di degno di nota da dire. E nel dirlo pretendo che chi mi legge, voi nello specifico, pratichi una lettura attenta. Non per me, che scrivo, ma per l’argomento che tratto, sono megalomane e narciso, è noto, ma non è di me che sto parlando ora.
Avessi voluto praticare la presenza irrilevante, irrilevante perché nulla ha da dire e nulla dice, presenza perché in effetti è presente, ora starei dentro la vostra televisione coi miei colleghi, lì a dire cazzate su questo o quel concorrente di Amici, non in ciabatte a casa a scrivere al computer.
Il fatto è che oggi ho da presentarvi due cantautrici che ritengo assai interessanti, due cantautrici che in apparenza nulla hanno in comune, a parte due dettagli curiosi. Il primo, evidente, è il nome. Una si chiama Dadà, l’altra Dada Sutra. Un riferimento, in entrambi i casi, al dadaismo, credo, riferimento che in realtà viene rovesciato clamorosamente nella loro arte, ma ci arrivo. L’altro, sottinteso, parlo sempre di dettagli, l’essere cantautrici, quindi artiste che cantano quello che hanno scritto, ma artiste che, in quanto artiste e non artisti, non me ne vorrà Vera Gheno, sono donne, appunto. E questo è il tema che ripeto come un mantra, come un’ossessione, che le cantautrici appartengono sia a un genere sessuale, quello femminile, che a un genere musicale, quello del cantautorato femminile, cosa che ripeto ormai come certi matti che li incontri per le vie del centro e stanno sempre lì, negli stessi posti, con gli stessi abiti a ripetere le stesse parole.
Il cantautorato femminile è un genere perché le artiste donne hanno un modo loro di intendere la scrittura, qui lo dico e qui lo confermo, e perché, tenute debitamente fuori dal mercato, non fatemi star qui a citare le penose percentuali che le donne, le artiste, le artiste che scrivono le loro canzoni, occupano nel sistema musica, mai numeri degni di essere evidenziati, se non per piangere di tristezza e malinconia, tenute quindi debitamente fuori dal mercato, tenute fuori da chi il mercato e il sistema gestisce, tutti uomini, possono permettersi delle libertà, in termini di composizione e scrittura, di azione, di pensiero, che chi è dentro quel mercato e quel sistema spesso non può vantare, vedi un po’ tu. Questo sì qualcosa che giustificherebbe quel riferimento al dadaismo, una specie di situazionismo applicato all’esserci, più che all’esprimersi, la sostanza che si fa forma, e non viceversa.
Veniamo a noi, anzi, a loro.
Dadà è una cantautrice napoletana da poco approdata in quel di Milano, alla corte di Fish, produttore di lungo corso, già al fianco di Tormento nei Sottotono (ci è tornato da poco) e già dietro tanti successi altrui, inutile star qui a stilare l’elenco, ma da Fibra in poi l’elenco è davvero lungo. Il suo ultimo singolo Cavalà, è una canzone che mescola una scrittura colta, alta, parlo di come le parole, prese di petto dalla tradizione partenopea, curate con attenzione, ma parlo anche di attenzione agli aspetti musicali, che guardano all’urban, certo, ma tenendo ben a mente la scrittura di tradizione, quella partenopea, sempre, e quella del nostro cantautorato, poi. Una scelta singolare, quindi, assolutamente originale, che però porta a una canzone di facile fruibilità, essere complessi e risultare semplici è un dono di pochi, di Dadà sicuramente. Una canzone che parla di corpi in un’epoca, questa, che ha messo i corpi fuorigioco, tutti distanti, tutti nascosti da mascherine o da schermate di Zoom, un riferimento a Lady Godiva nella cover del pezzo, e chi più di Lady Godiva è un inno al potere del corpo femminile? Dadà, ribadisco, si affaccia al mercato libera, spudorata, in tutti i sensi, e questo approccio paga, almeno in termini artistici, che poi, diciamocelo, è quello che in arte conta. Non un esordio, il suo, altri singoli già usciti nei mesi scorsi, ma il primo di un nuovo corso, assolutamente da tenere d’occhio.
Dada Sutra, per contro, gioca su un assai differente terreno di gioco, esordiendo con il singolo Big Boy. Una canzone oscura, algida, inquietante, ma di quell’essere inquietanti che ti tengono lì incollati, si tratti di ascoltare la canzone o, scelta auspicabile, di guardare lo strepitoso video. Qualcosa che ricorda certo industrial cupo alla Swans, ma echi di PJ Harvey, presenti soprattutto nella voce della cantante e bassista Caterina Dolci, titolare del progetto, affiancata per l’occasione dal producer Giacomo Carlone, dal pianista Vincenzo Parisi, e dal batterista Lorenzo D’Erasmo. Un brano, Big Boy, che se la gioca a viso aperto con le produzioni internazionali, l’incedere tribale delle percussioni che rendono la voce profonda e sensuale della cantante in un brano che è una sorta di minimale atto di accusa al patriarcato. Nel loro caso, uso il plurale per quanto la figura della cantante è evidentemente centrale nel progetto, band più formalmente che nei fatti, il nome prende spunto proprio dall’accostamento forzato tra il dadaismo, inteso quasi come modalità irrazionale di affrontare le cose della vita e il termine sutra, che si rifà, punto questo sì di contatto con la ricerca praticata verso il napoletano antico da Dadà, all’antica lingua indiana, la assonanza con il Kamasutra del tutto involontaria e irrilevante. Anche perché Big Boy parla di stupro, quindi di corpo violato, quanto di più distante dal kamasutra stesso.
Dadà con la sua Cavalà e Dada Sustra con la sua Big Boy ci dimostrano, non ne avevo certo bisogno, vista la mia ossessiva volontà di sottolinearlo, che la musica al femminile, oggi come oggi non solo è più viva e variegata che mai, ma che se si vuole davvero ipotizzare una maniera nuova di pensare una carriera è al cantautorato femminile, nelle sue eterogenee sfumature, che tocca guardare.