Un Tranquillo Weekend Di Paura è un apologo amarissimo e un capolavoro della New Hollywood

Una scampagnata sul fiume si trasforma in un’odissea tragica. Il film diretto da John Boorman è una lucida riflessione sulla società americana e certi suoi miti culturali. Ottimi Burt Reynolds e Jon Voight

Un Tranquillo Weekend Di Paura

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In un articolo uscito sul New Yorker nel 1973 e intitolato Dopo l’innocenza, la grande critica Pauline Kael parlava di Un Tranquillo Weekend Di Paura (Deliverance, 1972) di John Boorman come di un film esemplare della sua epoca. Che era quella dello scandalo Watergate, della montante disillusione politica che faceva seguito a una crisi di più lungo periodo già legata alla deflagrazione della guerra del Vietnam. Per questo, diversamente dal cinema degli anni Trenta, “in cui si diceva che le cose sarebbero andate meglio”, e degli anni seguenti alla Seconda guerra mondiale, “in cui la cattiveria sarebbe stata punita e il bene avrebbe trionfato”, i film degli anni Settanta, Un Tranquillo Weekend Di Paura tra questi, raccontavano una storia diversa, segnata dalla frustrazione per un sistema sociale e politico che aveva mostrato il suo volto peggiore e più inquietante (di qui alcuni caratteristici film sul tema della cospirazione, da La Conversazione di Coppola a Perché Un Assassinio di Pakula, che smantellavano alle fondamenta l’ottimismo liberal).

La Kael parla esplicitamente di “vietnamizzazione del cinema americano”. E in effetti, sebbene in Un Tranquillo Weekend Di Paura di riferimenti al Vietnam non ce ne siano, pure si sente aleggiare pesantemente quell’ombra minacciosa, soprattutto nel finale, quando il gruppo di “villeggianti” – chiamiamoli così – protagonisti della vicenda, viene condotto in ospedale dopo la terribile epopea attraversata. Hanno tutta l’aria di soldati, reduci che cercano di riprendersi nelle retrovie non solo dalle ferite, ma soprattutto da un indefinibile trauma. Infatti un altro studioso, Christian Keathley, ha inserito Un Tranquillo Weekend Di Paura, insieme a tanti altri film della New Hollywood degli anni Settanta, in un cosiddetto “ciclo post-traumatico”, caratterizzato da personaggi pessimisti e sconfitti, resi impotenti e minati interiormente – e talvolta anche esteriormente, pensiamo solo al comportamento alienato e sociopatico del Travis Bickle di Taxi Driver – dal collasso politico e morale del paese.

In questo senso Un Tranquillo Weekend Di Paura, diretto dall’inglese trapiantato a Hollywood John Boorman, è un’opera paradigmatica, per la quale molti dei recensori hanno utilizzato la definizione di apologo, da Alberto Moravia – “un incubo simbolico, una vicenda fortemente ideologizzata, quasi da apologo” – al finissimo Franco La Polla –  “un amaro apologo che si staglia come uno dei più impressionanti risultati della riflessione che il cinema americano contemporaneo ha intrapreso sui valori della stessa civiltà occidentale”.

Al centro della storia, tratta da un romanzo di James Dickey (che si ritaglia anche il piccolo, incisivo ruolo dello sceriffo della contea), ci sono quattro amici provenienti dalla grande città, Eddie (Jon Voight), Lewis (Burt Reynolds), Bobby (Ned Beatty) e Drew (Ronny Cox), che decidono di passare il weekend risalendo le rapide del fiume Chattooga, ai confini tra Georgia e Carolina del Sud. È un’area che, per l’imminente costruzione di una diga, sta per essere sottoposta a una drastica trasformazione, che distruggerà l’intoccato ambiente naturale esistente e smantellerà quella che ormai è una cittadina spettrale, quasi disabitata.

Un tranquillo weekend di paura
  • Burt Reynolds (Actor)
  • John Boorman (Director)

Per Lewis, che del quartetto è l’appassionato survivalista, lo spirito, così scrisse Goffredo Fofi, “londoniano-hemingwayano che sogna il rinvigorimento attraverso il rapporto con la natura e con la violenza”, quello è l’ultimo luogo “selvaggio e incontaminato di tutto il Sud”, che loro hanno l’eccezionale opportunità di vedere “così come l’hanno visto i primi esploratori”. Drew annuisce, aggiungendo che “c’è qualcosa nei boschi e nei fiumi che abbiamo perduto nelle città”. Ma Lewis lo incalza, sottolineando che “non l’abbiamo perduto, l’abbiamo venduto”.

C’è qui, in embrione, un tema ecologista che anni dopo lo stesso Boorman tematizzerà più esplicitamente ne La Foresta Di Smeraldo (1985). Invece aleggia, su Un Tranquillo Weekend Di Paura, una sfiducia quasi unilaterale. Perché, come il titolo italiano del film recita fin troppo chiaramente, la scampagnata all’insegna dell’ingenua fusione con la natura si rivelerà un viaggio iniziatico di ben altro tenore, in cui i bravi cittadini – che si dimostreranno non così bravi e non così civili – dovranno dare fondo al loro lato oscuro per sopravvivere a una peripezia tragica, frutto dell’incontro, anzi dello scontro con un pezzo di America, i “bifolchi”, gli abitanti di quelle terre interne misteriose del paese, che non hanno intenzioni pacifiche e anzi odiano i colletti bianchi delle metropoli con la loro aria linda e perbene.

Nonostante tutte le mitologie di cui è imbevuto Lewis, che s’illude armato di arco e frecce di essere un trapper del selvaggio west – il film funziona anche come un anti-western, che smonta alla radice la leggenda nutriente della frontiera –, l’Eden non è esattamente tale, non esiste più, perché la storia e i mutamenti impressi dalla civiltà hanno profondamente riscritto la natura di quei luoghi e riplasmato il carattere delle persone che lì vivono. Non è casuale che l’unico momento in cui mondo della città e America selvaggia riescono a dialogare è quello, celebre, della sequenza dei “dueling banjos”, in cui Drew e un ragazzino “indigeno” affetto da una malformazione si sfidano suonando insieme un bluegrass. È una parentesi illusoria in cui le due realtà, letteralmente, sembrano suonare la stessa musica e andare allo stesso tempo. I tempi invece sono profondamente dissonanti, e i quattro amici avranno purtroppo per loro l’opportunità per rendersene conto, subendo sevizie che, per il cinema dell’epoca, suonavano nuove e particolramente raccapriccianti.

Un Tranquillo Weekend Di Paura è un film straordinariamente lucido per la sua capacità di smantellare alle fondamenta alcuni dei principali miti culturali americani. L’ideologia della wilderness, in primo luogo, col personaggio di Lewis, all’inizio così preponderante e poi sempre più risucchiato dalla sua insipienza, dai suoi valori inservibili, relegato a un ruolo quasi di comparsa. È invece la maggioranza silenziosa degli uomini qualunque Bobby e soprattutto Eddie a emergere quale autentica protagonista, capace di ritrovare sotto la scorza delle buone maniere le capacità, tra violenza e ipocrisia, indispensabili ad assicurare la sopravvivenza.

Le idee romantiche della natura buona e del buon selvaggio si dimostrano ugualmente fallaci. E non migliore è quella civiltà, come scrisse Alberto Moravia, “responsabile dell’orrenda degenerazione degli indigeni e della stupidità dei quattro gitanti”, cui sarà anche da ascrivere l’imminente disastro ecologico. John Boorman dedica alla natura delle magnifiche, silenziose inquadrature in campo lungo del fiume – fotografate da un già bravissimo Vilmos Zsigmond –, con le sue rapide e gli affascinanti dintorni selvaggi. Ma la osserva con distaccato rigore. Ben sapendo che si tratta di un mondo ormai piegato e piagato dalla presenza dell’uomo intrinsecamente malvagio.

Non illuda quindi il finale di ritorno all’ordine. Perché è un ordine insincero, che, nel pessimismo dell’apologo, ristabilisce l’ideologia sociale su cui si fonda quella cultura.  Per misurare la distanza tra quel cinema problematico e critico degli anni Settanta – talvolta magari eccessivamente cupo e unilaterale – e quello successivo, basterebbe pensare agli echi di Un Tranquillo Weekend Di Paura contenuti in un film di quasi vent’anni dopo, Scappo Dalla Città (1991) con Billy Crystal e Jack Palance. Qui l’avventura di iniziazione dolore e frustrante conoscenza si trasforma in una tonificante commedia, in cui tre amici quarantenni in crisi vanno in quel che resta di un west artificiale a uso di turista a giocare a fare i cowboy. E pur attraversando alcune traversie, superano brillantemente la prova. Grazie al contatto corroborante con la natura e con la saggezza degli uomini veri della frontiera, ritrovano la voglia di vivere, il sorriso, la capacità di stare vicino ai propri cari e tornano con rinnovato spirito produttivo ai loro insignificanti lavori di sempre. Decisamente, il trauma era ormai superato. O almeno così sembrava.

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