Addio a Monica Vitti, icona del cinema e “donna Novecento”

Scompare a novant’anni una delle più grandi attrici italiane. Un talento modernissimo, che ha dato vita a un nuovo modello di femminilità oltre gli stereotipi. Fragile e divertente, seducente e malinconica, introversa e spiritosa

Monica Vitti

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Dopo aver festeggiato nello scorso novembre i novant’anni di Monica Vitti oggi, dopo l’annuncio fatto da Walter Veltroni su Twitter, dobbiamo dire addio a una delle più grandi e amate attrici del cinema (e del teatro) italiano. A causa della sua lunghissima malattia, erano molti anni che Monica Vitti non appariva più in pubblico, consegnata alla memoria delle sue grandi interpretazioni e a un silenzio che, anche simbolicamente, raccontava il suo appartenere a un altro secolo.

Monica Vitti è stata un’autentica “donna Novecento”, per quel suo modo nuovo e modernissimo di interpretare la femminilità. Maria Luisa Ceciarelli, questo il suo vero nome su cui lei scherzava amabilmente – “è un po’ burino”, commentava – è riuscita a creare un’immagine di sé forte e indipendente, unica donna tra i colonnelli della commedia all’italiana in mezzo agli ingombrantissimi Sordi Gassman Tognazzi Manfredi, donna anche dalla vita sentimentale autonoma e senza ossessioni matrimoniali, senza focolari domestici e figli. “Mia madre era una donna infelice e mi ha trasmesso questa sensazione che la famiglia fosse una costrizione penosa, una fatica massacrante e destinata all’insuccesso. Mi sono detta: io non ci casco, non avrò mai famiglia, non farò figli. L’ho deciso prestissimo”.

Come attrice è stata capace di dar vita a un carattere sfuggente ed enigmatico, incarnando nella prima fase della sua carriera l’icona della drammatica, serissima e un po’ famigerata incomunicabilità del cinema di Michelangelo Antonioni, di cui fu compagna e musa, attraverso un quartetto di film, L’Avventura, La Notte, L’Eclisse, Deserto Rosso, che raccontano una nuova tipologia di donna intellettuale, nevrotica, introversa, insoddisfatta.

Poi però, con un apparente ribaltamento rivoluzionario, trova oltre la rigidità di quel tipo algido e comunque conturbante gli strumenti per trasformarsi nell’interprete ideale della commedia all’italiana, capace di smarcarsi dalla sua bellezza, rendendola solo uno dei tanti elementi del suo talento da “fatalona comica”, come disse Mario Monicelli, al quale con lei, grazie al successo travolgente de La Ragazza Con la Pistola (1968), riuscì lo stesso gioco di prestigio già eseguito con Vittorio Gassman, reinventato apparentemente dal nulla attore brillante con I Soliti Ignoti.

Anche nel caso di Monica Vitti questo cambiamento avvenne solo apparentemente dal nulla, perché lei, proveniente dalla seria scuola di formazione teatrale dell’Accademia D’Arte Drammatica avendo come maestro Sergio Tofano, il registro brillante l’aveva già sperimentato sulle tavole del palcoscenico, almeno dal 1956, quando recitò con notevole successo di pubblico e critica le Sei storie da ridere, atti unici da Feydeau, Ionesco, Roussin, accanto ad Alberto Bonucci, Bice Valori, Gianrico Tedeschi.

Nel passaggio dal cinema serio a quello comico resta però un fattore immutabile del suo talento e della sua femminilità: la modernità del suo essere donna, del non farsi mai ingabbiare nel ruolo della madre angelo del focolare o della femmina perduta, smarcandosi immediatamente dagli stereotipi attraverso i quali il maschio e il cinema avevano raccontato le donne nei primi decenni del secondo dopoguerra, tra fosche tragedie neorealiste, melodrammi e commedie rosa popolaresche alla Pane, Amore E Fantasia. Tutti generi in cui risaltava un modello di donna, da Silvana Mangano a Silvana Pampanini a Sophia Loren a Gina Lollobrigida, che rientrava in una cornice tipizzata e riconoscibile, in cui era ancora l’uomo a decidere l’orizzonte di senso e definire i confini nei quali la donna andava collocata e raccontata.

Con Monica Vitti il punto di vista cambia. E paradossalmente molto più nei film in cui ha recitato dopo l’esperienza con Antonioni, per il quale in fondo interpreta ancora una donna oggetto, per quanto oggetto di un desiderio intellettualizzato, ma ancora marcatamente maschile. La Monica della commedia si prende la scena, è lei, idealmente quella che ci guarda e si fa guardare, disponendo di una tastiera espressiva inimitabile e singolare. Nella quale la bellezza resta un fattore rilevante – con la particolarità del naso importante, della voce roca che lascia sbigottiti e sedotti –, ma rimanendo solo uno dei vari ingredienti di una femminilità spiazzante, che punta sull’autoironia, la sbadataggine, uno spirito anche velleitario, ma soprattutto libero, costantemente alla ricerca di un suo modo di essere che sfugge alle definizioni e ai preconcetti.

Monica Vitti è stata una donna complessa e priva di etichette. E se resta la sensazione di qualcosa di inconciliabile in quest’attrice dall’anima duplice anzi multipla, la cosa non è da addebitare ai ruoli, ma alla sua natura di donna di cui quei ruoli finiscono per essere soltanto lo specchio verace. «Sono fatta non solo di contraddizioni, ma di caratteri opposti. Sono una persona estremamente angosciata, triste, e nello stesso tempo allegra, trascinante, vitale. E tutto questo in modo molto estremo».

Che è quello che si potrebbe forse dire per qualunque essere umano. Perciò è questo che ha fatto Monica Vitti, compiendo in questo, quasi da sola, una rivoluzione copernicana di cui poi nel cinema italiano si sono avvantaggiate tutte le interpreti venute dopo di lei – a partire dall’unica forse davvero apparentabile a lei in quanto a modernità, ossia Mariangela Melato: far capire quale universo di sfaccettature alberghi dentro le donne e quali enormi risorse posseggano.

È la storia della ragazza con la pistola, che dalla provincia siciliana va nella Swinging London per vendicarsi dell’uomo che l’ha sedotta e abbandonata e invece si trova catapultata in un corso accelerato di modernità nel quale si scopre sorprendentemente adeguata e pronta al cambiamento. E sono anche i tanti suoi film in cui Monica Vitti sperimenta il desiderio, altro intangibile tabu per una cultura maschilista in cui la femmina poteva essere solo moglie e madre. E invece, anche in forme paradossali e ridanciane, come nel caso della indimenticabile Adelaide Ciafrocchi di Dramma Della Gelosia (1970) di Ettore Scola, la Vitti interpreta donne in bilico tra più uomini, lì il muratore comunista (e ammogliato) Mastroianni e il pizzaiolo Giancarlo Giannini. Oppure diventa, ne Gli Ordini Sono Ordini (1972) di Franco Giraldi, una casalinga in cerca di trasgressioni da sperimentare fuori della dimensione mortifera e obbligatoria della coppia.

E sono ruoli confezionati sulla misura della sua femminiiltà quelli diretti negli anni Settanta dall’allora compagno di Monica Vitti, Carlo Di Palma: Teresa La Ladra (1973), in cui è una persona fragile e fuori posto rispetto al suo tempo che attraversa guerra, vedovanza, una maternità non conciliata, galera e manicomio; Qui Comincia L’Avventura (1975), dove diventa una motociclista apparentemente emancipata, che trascina nelle sue scorribande la stiratrice Claudia Cardinale, coinvolgendola in una viaggio in Italia fino alla modernissima Milano (ma le delusioni son dietro l’angolo).

In questo faticoso percorso di costruzione di un’identità femminile non asservita allo sguardo e al possesso maschile, Monica Vitti marca una discontinuità fortissima, e il segno della modernità di una donna che ha saputo filtrare e sintetizzare le inquietudini della seconda metà del Novecento, dando voce alle domande, le richieste, il desiderio di emancipazione dell’intero universo femminile della sua epoca. In questo senso, persino al di là del suo specifico talento d’attrice, il suo ruolo nella storia sociale e del costume italiano è e resterà incalcolabile. Anche per questo la freschezza di certe sue interpretazioni resiste meravigliosamente all’usura del tempo. Monica Vitti ci parla ancora.

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