Borotalco, il cult movie di Carlo Verdone ha appena compiuto quarant’anni

Uscito il 22 gennaio del 1982, è il film della svolta nella carriera dell’attore e regista romano, che segna il passaggio dalle macchiette a una “commedia d’autore” più consapevole

Borotalco

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Solo qualche giorno fa Carlo Verdone, in un post sui suoi profili social, ricordava che esattamente quarant’anni prima, il 22 gennaio del 1982, usciva al cinema il suo terzo film, Borotalco. È una storia, questa, che l’attore e regista romano ha raccontato tante volte, perché per lui Borotalco fu l’opera della svolta, il passaggio dai film coi personaggi di Un Sacco Bello e Bianco, Rosso E Verdone – che consistevano in una raccolta di sketch e piccoli episodi, ben cuciti tra loro ma pur sempre ruotanti intorno a dei personaggi molto tipizzati, dal ragazzotto ingenuo all’asfissiante iperpreciso strabordante di tic, che Verdone aveva portato prima a teatro e poi in tv, con enorme fortuna, a Non Stop – a un cinema di narrazione più articolato, nella direzione di una commedia italiana moderatamente sintonizzata sul proprio tempo, da raccontare nella chiave umoristica e agrodolce che diventerà la cifra del Verdone maturo.

La storia dietro Borotalco ha un che di paradossale. Perché nonostante il notevole successo dei suoi due primi film, che avevano avuto come mentore/produttore addirittura il suo idolo Sergio Leone, dopo Bianco, Rosso E Verdone le porte per l’attore s’erano chiuse in maniera inaspettata. Contratto non rinnovato da Medusa, una notizia che non gli comunicarono nemmeno e che Verdone scoprì da solo, e addirittura un tentativo di ritorno all’università a cercare il suo vecchio professore di Storia delle religioni per tentare, chissà, una carriera accademica – solo che il docente nel frattempo aveva ben pensato di togliersi la vita.

Fu la chiamata di Mario Cecchi Gori a risvegliare Verdone dallo sconforto. Al famoso produttore era piaciuto molto il personaggio dell’emigrante muto di Bianco, Rosso E Verdone il quale, tornato in Italia per le elezioni, quando è al seggio sbotta in un’incomprensibile invettiva contro il paese, buffissima ma con una nota di autentica amarezza. Cecchi Gori disse a Verdone: “Credo in te. Facciamo un film e se va bene firmiamo per altri quattro. Ma puntiamo su un personaggio unico”.

Da lì comincia la ricerca insieme ad Enrico Oldoini di un soggetto all’altezza. In diversi mesi ne cestinano almeno sei, prima di arrivare all’idea di Borotalco – “un film leggero come una nuvola, come borotalco”, così lo spiegò Verdone alla coprotagonista Eleonora Giorgi, azzeccando un titolo che piacque subito a Cecchi Gori. Anche se poi, quando il film cominciò a macinare milioni, giunsero le minacce di ritorsioni della Manetti & Roberts, proprietaria del marchio, obbligando il produttore a un accomodamento.

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  • Distribuito da Mustang Entertainment
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Non esagera Verdone nel sottolineare l’importanza nella sua carriera di questo lavoro, che negli anni è assurto allo status di cult – come ha confermato il gran rumore che s’è fatto per il ritrovamento dell’appartamento usato come casa dell’iconico personaggio del playboy cialtrone Manuel Fantoni. Non si trattò solo di un grande successo di pubblico – oltre 4 miliardi e mezzo di lire –, quello l’aveva ottenuto già prima, ma soprattutto del riconoscimento da parte dell’establishment degli addetti ai lavori di non essere di fronte al semplice film di un comico ma di un’opera con una firma da attore-autore, certificata dalla vittoria di ben cinque David di Donatello su nove nomination, compresi miglior film e i due protagonisti, con pure una candidatura alla regia particolarmente significativa per Verdone.

Sin dal titolo, così funzionale nella sua freschezza, Borotalco tradisce la voglia di descrivere con una trasparenza da “fotoromanzo”, termine cui è ricorso spesso Verdone, i nascenti anni Ottanta, di cui, dice l’autore, quel film voleva essere “una lastra fotografica nitida”, cogliendo lo spirito del tempo. Un film quindi che, pur nei suoi precisi limiti, muove dalle ambizioni proprie del Verdone adulto, il quale, pur restando al riparo di una cornice marcatamente comica cui non ha mai rinunciato, ha aspirato sempre a costruire dei bozzetti che contenessero qualche piccola verità presa di peso dal quotidiano, restituendo i tratti di un mondo e di personaggi non più macchiettistici e invece verosimili, con ingenuità, manie e velleità in cui come pubblico possiamo specchiarci, anche perché lo sguardo è sempre carico di empatia, affetto, raramente giudicante (che è un bene) e raramente cattivo (che invece è il maggior limite del Verdone autore).

Borotalco è in questo senso il prototipo del cinema a venire di Carlo Verdone, con Sergio Benvenuti quale personaggio esemplare, l’eterno immaturo e velleitario che si traveste da quel gaglioffo avventuroso che non è, riuscendo così a conquistare una donna più intraprendente di lui, Nadia (Giorgi), la quale però, perduta appresso alle sue fantasie impersonificate dal mito Lucio Dalla, non è meno ingenua del suo improbabile seduttore. A guardarlo a distanza di quarant’anni è questo l’elemento più importante del film, del quale però, questo va detto, si nota anche una certa fragilità, un’esilità narrativa che appare oggi decisamente più vistosa di allora.

Borotalco dimostra innegabilmente i suoi anni, e forse proprio per questo è capace di riattivare, in chi gli anni Ottanta li ha vissuti, un forte senso di appartenenza, l’emozione che deriva dalla capacità del film di rendere un’atmosfera schietta, spontanea, innocente in cui lo spettatore diventato ormai adulto si riconosce. Atmosfera che chissà se corrisponda davvero alla realtà del tempo, probabilmente assai meno accomodante di come la descrive eufemisticamente il film. Eppure è probabile che chi è stato adolescente o ventenne allora l’abbia percepita o la ricordi esattamente in quel modo, sentimentalmente felice di ritrovarla nelle pagine di un racconto affettuoso e inevitabilmente datato.

Il resto del pubblico invece, probabilmente, di Borotalco finirà per apprezzare altro. E cioè i tormentoni proverbiali (“m’imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana”), le battute (“so’ greche!”), e certe figurine, che però, nonostante le intenzioni di racconto tridimensionale di Verdone, virano ancora un po’ verso la macchietta. Impossibile non ricordare Mario Brega e le sue spacconerie, in una variante del personaggio che questo incredibile, esuberante non attore aveva creato con la sua ruvida spontaneità già nei primi due film di Verdone.

E se c’è davvero un volto che non si dimentica in questo film, capace di portarsi appresso un misto di malinconia, mitomania, fallimento consapevole, quello è il Manuel Fantoni di Angelo Infanti (giustamente premiato anche lui con il David) che ha un lampo negli occhi misto a una disillusione tutta capitolina, un’infingarda guasconeria da autentico cazzaro che fotografia meglio di un saggio un certo spirito romano e romanesco. È difficile non voler bene a questo fotoromanzo verdoniano, nonostante e anzi probabilmente proprio a causa dei suoi limiti. Che sono anche quelli di un’epoca e di una generazione che da questo racconto perciò si farà cullare ancora una volta, all’ennesima visione, non dando troppo peso a tutto ciò che non funziona.

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