Rkomi e Ernia, tra boomerismo e pregiudizi

Entrambi hanno tirato fuori canzoni di una bruttezza imbarazzante, arriverà qualcuno ad accusarmi di boomerismo, ma se una cagata è una cagata, non possiamo che venderla come merda


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Boomerismo e pregiudizio. Così. Come fosse un remake nerd di Jane Austen.

Bommerismo e pregiudizio.

Oggi verrò accusato di entrambe le cose. Probabilmente a ragione.

Diranno che sono un boomer, nonostante tecnicamente non lo sia, perché non capisco cosa sia l’oggi o almeno come i giovani lo vedano e provino a raccontarlo e viverlo, seppur il boomerismo sarebbe tecnicamente altro, il rivolgere contro qualcuno nato durante l’epoca dei Baby Boomer colpe che qualcuno nato durante l’epoca dei Baby Boomer imputa alle nuove generazioni, il tutto misto a una certa incapacità, appunto, di leggere l’oggi, e diranno che ho pregiudizi, perché mi limiterò a frasi tranchant su argomenti che dimostrerò di conoscere in maniera poco approfondita, per altro in maniera compiaciuta, altro modo per esternare il mio giudizio di merito, immeritevole di troppe attenzioni, spavaldamente snob, giudizio però ritenuto sommario, privo di fondamenti e basi solide. Trattare come robetta qualcosa che si ritiene indegno di nota è una pratica diffusa tra chi applica la critica musicale al giornalismo, si applica un linguaggio smart, o letterario, parlo per me, e si preferisce trattare con aria di sufficienza quel che si ritiene insufficiente, perché la serietà è giusto applicarla solo a ciò che serietà merita. Ciò non toglie che un pregiudizio spacciato per pregiudizio appaia in effetti agli occhi di lettori distratti, o manchevoli di basi, come un pregiudizio tout court, e il venderlo come una scelta stilistica o anche solo di spiccia comunicazione suona come un ennesimo non richiesto sfottò, quasi un atto di bullismo, un fregiarsi di qualcosa che in effetti neanche ha tutta questa grande allure agli occhi degli altri, un critico musicale, puf… Vagli a spiegare che hai scelto di occuparti di musica perché ritieni la musica il medium più immediato, e quindi un modo perfetto per raccontare proprio quell’oggi che spesso ti imputano di non saper leggere, figuriamoci raccontare, vagli a spiegare che quando parli di musica stai in realtà parlando d’altro, perché la pensi esattamente come chi ha partorito la frase a effetto attribuita a Frank Zappa sul parlare di musica e danzare di architettura, vagli a spiegare che non è mica un caso che nei tuoi pezzi alla fin fine di musica parli sempre meno che del resto, mica perché non sai dosare bene capello e svolgimento, a scuola non eri una cima, ma te la cavavi abbastanza, è che quello che spacci per cappello è il realtà lo svolgimento, e se di musica parli in maniera spiccia nel finale è solo perché è la musica la mano di smalto che hai deciso di dare ai tuoi ragionamenti, anche quelli che da due anni provi a fare sulla pandemia, questione che ritieni centrale per la tua generazione, non solo e non certo per mere questioni sanitarie.

Il fatto è che mentre ero in auto è passata una canzone, di uno di quegli artisti di cui si dice, in genere, lui è diverso dagli altri, è uno che ha grande stoffa, sottintendendo che gli altri, quelli che ne avrebbero meno, siano gli artisti che praticano il suo stesso genere, nello specifico un mix tra pop, trap e rap, la musica che tira oggi. Lui, per la precisione, è l’artista che ha venduto più dischi nel 2021, e la dico così, ha venduto più dischi, consapevole di usare un lessico antico, di quando c’erano i dischi, appunto, in fondo la discografia si chiama ancora così, e i dischi si compravano, dando in cambio soldi, non come oggi che si ascoltano gratis in streaming ma si continua a dire comprare e vendere, così, a caso, Rkomi da Calvairate. Il suo album Taxi Driver, in effetti, è stato campione di vendite l’anno scorso, sopra l’altro campione Sangiovanni, la parola campione in questo caso ha doppia valenza, visto che entrambi saranno tra i Big a Sanremo, e staccando i Maneskin, terzi, e Blanco, anche lui al Festival, quarto. Rkomi è, insieme a Ernia, un nome di punta di questo nuovo genere urban, parola usata coscientemente in maniera grossolana, uno considerato di valore, appunto, non come gli altri, e qui i nomi sarebbero troppi e, confesso, a me abbastanza sconosciuti. Non che Rkomi lo conosca, intendiamoci, ho sentito poco e male, quasi sempre in radio, così come per Ernia, di cui so a memoria la hit Superclassico, canzone che in effetti mi ha fatto a lungo interrogare su cosa si intenda con “lui è meglio degli altri”, e soprattutto sul concetto di “profondità”, perché questa è l’altra cosa che si dice sempre di Rkomi e Ernia, che a differenza degli altri i loro testi sono profondi.

Sposto per qualche secondo il discorso a lato, come mio uso e costume.

Quando ho iniziato a appassionarmi di musica leggera, nello specifico del rock, stavo frequentando il ginnasio. Avevo alle spalle studi di musica classica, violoncello e pianoforte, abbandonati, anche questo di abbandonare i miei studi a buon punto è un mio uso e costume, e anche un anno di ragioneria, e stavo studiando al classico privato della diocesi di Ancona, l’idea di farmi prete lì, da qualche parte, abbandonata a sua volta dopo avermi sfiorato a lungo. Mi appassiono di rock, per altro, l’ho già raccontata, anche a causa di quell’idea, durante una vacanza con dei seminaristi mi hanno fatto suonare per la prima volta una chitarra elettrica, segnando in qualche modo la mia vita. Decido quindi che è il momento che io assista a un concerto rock, io che vivo in provincia, nella provincia della provincia, e di concerti rock non ne ho mai visto neanche uno. Succede che gli U2 arrivino in Italia col loro The Joshua Tree e che per motivi che non sto a raccontarvi io riesca a trovare i tanti soldi, tanti per me, intendiamoci, per andarli a vedere a Modena, succede che io trovi anche modo di farmi ospitare a Bologna, insomma, tutto fila. Manca solo di convincere i miei, che sono persone di chiesa e non vedono al mondo tutti lustrini e borchie del rock con troppa stima. È a quel punto che mi viene in soccorso Stefano Renzi, un mio carissimo amico dell’epoca, colui che mi ha fatto conoscere non solo gli U2, per altro, ma anche i R.E.M., i Waterboys, i Dream Syndacate e tante altre realtà che difficilmente avrei incontrato casualmente, non prima almeno di diventare un assiduo lettore delle riviste di settore, Rockerilla in testa, e di ascoltare programmi come Planet Rock. Stefano, col quale passavo grandi pomeriggi a giocare a Subbuteo, mi fa notare come nei testi degli U2, band irlandese non dimentichiamolo, ci fossero tanti riferimenti al cattolicesimo, a Dio e più in generale alla fede. Ovviamente è questa la scorciatoia che cercavo, compro il libro di testi tradotti della band, edita da Arcana e tradotta da colui che poi diventerà un mio caro amico, Davide Sapienza, ai tempi uno dei miei idoli giornalistici, e faccio leggere i testi ai miei genitori, spacciando quasi gli U2 per una versione capellona dei Gen Rosso. I miei quindi accettano che io possa andare a vedere il concerto degli U2, entrato per altro nella storia della nostra musica leggera come uno dei primi grandi eventi di massa. Ho sempre pensato, in seguito, che quel trucchetto infantile, ero un ragazzo ma il trucco era davvero qualcosa di ingenuo, fosse esattamente il medesimo che si applica spesso a opere artistiche che riteniamo poco meritevoli ma che vogliamo in qualche modo salvare, non parlo di critica musicale, intendiamoci, ma di chi è appassionato di determinati artisti o determinati generi. Suona la musica del diavolo, sì, ma nei testi parla di fede. Fa musica che fa obiettivamente cagare, ma lui è diverso, i suoi testi sono profondi.

Torno in auto. Sto lì che guido, la mascherina sotto il mento, perché sfilarla e infilarla di nuovo richiederebbe troppo tempo, mentre guido distrattamente per il solco lauretano, questa la capisce solo chi a Loreto c’è in effetti stato, che da casa conduce alla scuola dei miei figli, andata o ritorno, non ricordo. Sono lì e a un certo punto parte un brano pop, palesemente pop, con qualche sfumatura urban, niente di rilevante. La voce che canta, diciamo così per comodità, è palesemente milanese, tutti gli accenti sbagliati, non ho la minima idea di cosa stia parlando, una specie di autodifesa mi impedisce di prestare attenzione a quello che anche a pelle mi sembra dannoso. Poi arriva il ritornello, dove compare, magari era già comparsa prima ma non l’avevo registrata, una voce femminile. La conosco, ma non associo subito la voce al nome. Mi aiuterà qualche istante dopo il display della radio, che cita titolo e interpreti. Il ritornello è, in genere, la parte più orecchiabile di una canzone, quello che si impara per primo e se la canzone è destinata a rimanere almeno per qualche mese, si può canticchiare anche senza conoscerne esattamente le parole giuste. Questo ritornello è molto orecchiabile. Non particolarmente originale, anche se non saprei dire se mi ricorda nello specifico una canzone precisa, ma molto orecchiabile. E canta di due che decidono di passare una notte insieme, lontano dal resto del mondo. Ovviamente la cosa non viene detta così, è una canzone, ma le parole scelte per dirlo non è che siano esattamente poesia. Si parla di sospiri, di tirare a lungo, immagino metaforicamente, di fiato che manca, ripetendo come in un mantra due concetti, il tutto accadrà per “tutta la notte” e poi “paparararara”. Volessi romanzare questo spicciolo avvenimento di cronaca personale potrei dire che al conclusivo “Non rispondiamo a nessuno tutta la notte, paparararara” ho inchiodato la macchina, tirando il freno a mano, salvo poi scendere, una mazza da baseball in mano, come Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia, del tutto intenzionato a andare a piedi fino a Calvairate, lo scopo preciso di brutalizzare Rkomi e chiunque provi a mettersi tra me e la mia mission. Una canzone di una bruttezza imbarazzante, che per di più ha l’aggravante di passare per innocua, come se il dilagare del brutto facesse meno danni dell’erba cattiva. L’idea che questa canzone, La coda del diavolo il titolo, sia la hit dell’album più “venduto” nel 2021 non fa che passare una mano di marrone merda a un anno già di suo non esaltantissimo, lo spirito dei tempi evidentemente ha optato per la colonna sonora più coerente a disposizione.

Qualcuno, immagino, dirà che come Ernia non sia solo quello di Superclassico, Rkomi non è solo quello di La coda del diavolo, e ci mancherebbe pure altro, ma resta che entrambi hanno tirato fuori canzoni come questa, e ne abbiano fatto dei singoli, così, senza manifestare imbarazzo o vergogna, senza poi chiedere scusa pubblicamente, come buon senso e buona educazione spingerebbero a fare dopo aver veicolato qualcosa di così orrido.

A questo punto, lo dicevo già in partenza, arriverà qualcuno a accusarmi di boomerismo, magari citando le brutte canzoni di quando ero giovane io, o citando il continuo scontro generazionale che vuole i vecchi rimpiangere i bei tempi andati e i giovani rinfacciarglielo, e pregiudizio, una rondine non fa primavera, è vero, ma una cagata è una cagata, non la possiamo vendere per altro che merda. Son qui a mani nude pronto a difendere queste mie parole, fatevi sotto, venderò cara la pelle, paparararara.