Magnolia, Paul Thomas Anderson e il coraggio della dismisura di un film capolavoro

Nel 1999 il regista nemmeno trentenne firma un'opera straordinaria sul dolore dei figli senza padri e sulle ansie apocalittiche di fine millennio

Magnolia

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Alle volte guardando l’ammirevole perfezione stilistica de Il Petroliere, The Master, Vizio Di Forma, Il Filo Nascosto, bellissimi ma reticenti, lontani (anche temporalmente, tutti rivolti al passato), introversi come i loro protagonisti emotivamente repressi, viene la nostalgia del Paul Thomas Anderson regista nemmeno trentenne di Magnolia, che con ambizione smisurata, coraggio e incoscienza costruisce un grande affresco che racconta in presa diretta il proprio tempo. Presentendo in quel 1999 in cui il film uscì l’angoscia elettrizzante del passaggio di millennio, lo stesso che, in chiave certo diversa, si presero la briga di radiografare le altre due determinanti opere “millenariste” di quella stagione, Matrix dei fratelli/sorelle Wachowski, che fotografava il passaggio dalla realtà novecentesca all’incubo digitale di un mondo smaterializzato, e l’apocalisse nichilista e allucinatoria di Fight Club di David Fincher.

Magnolia è un film esuberante ed eccessivo che, seguendo il filo di nove personaggi tutti nel nome del padre – e del dolore che genitori imbelli, egoisti, incapaci e assenti causano a figli votati per questo all’infelicità –, affastella un gran enorme di storie, incastrandole una dentro l’altra in un montaggio vertiginoso vivacizzato dai piani sequenza d’una camera mobilissima, che segue il ritmo della musica onnipervasiva della colonna sonora di Aimee Mann, le cui note e versi sono l’autentica sceneggiatura di un film che, volendo trovare un genere di appartenenza, potrebbe essere tanto un melodramma quanto un musical.

Magnolia è anche una sorta di enciclopedia o regesto di tanto cinema americano precedente. C’è naturalmente l’Altman polifonico di Nashville (dal quale prende in prestito uno dei protagonisti, Henry Gibson) e di America Oggi, c’è persino una insolente citazione kubrickiana nell’uso dello Zarathustra di Richard Strauss, c’è la presenza di un volto iconico come Jason Robards che rimanda rispettosamente alla Hollywood dei padri, da Peckinpah a Pakula.

C’è pure una vocazione postmodernista e autoriflessiva (forse l’unica cosa invecchiata del film) del cinema consapevole di essere tale: nel prologo costruito come un incastro di storie paradossali sul caso e il destino; nel momento in cui l’infermiere interpretato dal meraviglioso Philip Seymour Hoffman (attore di cui non smetteremo mai di rimpiangere la scomparsa) parlando al telefono dice che quello è esattamente il classico momento da film in cui il protagonista chiede disperatamente aiuto; oppure nell’altra situazione in cui il profetico ispirato esaltato Frank T.J. Mackey (il ruolo della vita di Tom Cruise), inventore del corso ipermaschilista “seduci e distruggi”, spiega ai suoi adepti a caccia di donne facili la tecnica del “formare una tragedia”.

Ed è esattamente una tragedia (greca?) quella che dispone Paul Thomas Anderson in Magnolia, quasi sempre al massimo volume, gridata, mastodontica (anche nella durata, superiore alle tre ore) e per questo inevitabilmente imperfetta. Tutto è a fior di pelle, con i personaggi schiacciati dal proprio dolore che invece di inghiottire manifestano quasi senza ritegno. Dal ragazzino prodigio di un vecchio show televisivo diventato un adulto senza spina dorsale (William H. Macy) a un altro ragazzino che trent’anni dopo, fenomeno nello stesso quiz, rischia di ripercorrerne le orme fallimentari.

Dalla donna (Julianne Moore) sposatasi per interesse che adesso, quando il marito è ormai malato terminale scopre troppo tardi di essere innamorata di lui, alla giovane cocainomane (Melora Walters) dalla vita distrutta per le colpe innominabili d’un presentatore televisivo anche lui affetto da cancro (Philip Baker Hall). Dallo stesso Mackey, che sotto la patina del maschio alfa conquistatore ossessivo nasconde le fragilità di un figlio rifiutato, sino a quella sorta di centro morale del film che è il poliziotto Jim (John C. Reilly), il quale con la pazienza del mestiere e del suo buon cuore cerca di mettere ordine tra le storie di sofferenza, squallore, miseria con cui si confronta tutti i giorni, alle prese con un mondo che pare sul punto di impazzire definitivamente.

Magnolia nella sua concitazione senza soste, tanto visiva quanto musicale, restituisce il senso di affanno di personaggi per i quali ormai pare essere troppo tardi, per i quali il destino non sembra voler predisporre una seconda occasione, condannati a restare fissi alle colpe dei padri ricadute su di loro. Eppure, e qui è la bellezza di un’opera che ha il coraggio della dismisura, il dolore apparentemente immodificabile può rovesciarsi nel suo contrario per una sorta di miracolo. Anzi due. Il primo è, a testimoniare quasi didascalicamente la polifonia del film, una canzone che all’improvviso, rompendo qualsiasi coerenza diegetica e con un’ispirazione integralmente da musical, tutti i personaggi si mettono a cantare, una sorta di inno o preghiera laica in cui cercano di trovare la forza della saggezza per andare oltre lo sconforto.

L’altro prodigio è una delle sequenze più citate e rischiose del cinema degli ultimi 25 anni, l’apocalittica pioggia di rane che risveglia tanto i personaggi quanto gli spettatori, in un climax emotivo da Antico Testamento, costringendoli a misurarsi con un simbolo inesplicabile che consente alla storia di voltare pagina. Come se la punizione definitiva e tanto temuta fosse finalmente giunta, consentendo ai protagonisti, almeno quelli in grado di sopravvivere alla tragedia, di ricominciare a vivere. Oggi Paul Thomas Anderson è uno dei maestri riconosciuti di un cinema d’autore di eccezionale rigore formale. Ma di fronte alla ricercata austerità dei suoi capi d’opera del nuovo millennio, noi continuiamo a preferire l’ingenuo, adolescenziale furore di questo bulimico, scomposto capolavoro giovanile dal volto umano.

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