Sono un cretino e ho ascoltato Seta di Elisa

Con il suo nuovo singolo, Elisa quarantaquattro anni compiuti prova a fare la ragazzina, rinunciando al proprio stile, talento, alle sue caratteristiche canore


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Ho letto un’intervista di Veltroni alla Gialappa’s Band, sul Corriere. A parte il disagio profondo provato per le domande poste dall’ex segretario del partito di centrosinistra, disagio condiviso con i tre Gialappi, c’è un passaggio nelle risposte che mi ha molto colpito, e mi ha molto colpito perché mi è capitato di vivere esattamente le medesime situazioni descritte con grande ironia. Veltroni, quello, ricordiamolo, che non più di un mese fa parlava dell’imminente invasione europea dei manga, giusto con quella trentina e passa di anni di ritardo, lui sì ultimo giapponese rimasto nella selva dell’isola a non sapere che la guerra è finita, chiede al trio cosa dicano ai loro figli riguardo il loro mestiere, per la precisione chiede: “Se i vostri figli vi chiedono che mestiere fate cosa rispondete?”. Una domanda semplice, lineare, di quelle che chiunque abbia figli ben conosce. La risposta è ovviamente ad hoc. “Il cretino. Papà fa il cretino in tv,” attaccano, salvo poi spiegare che il figlio di Marco Santin, a quattro anni, ha risposto “Mio papà non fa niente”, mentre il figlio di Giorgio Gherarducci, a otto anni, a uno compagno che gli chiedesse se suo padre era uno della Gialappa’s ha risposto “Sì, perché, anche il tuo?”, chiosando, Giorgio, “Voleva condividere la vergogna”. Ora, a parte la perfezione dei tempi comici, è il loro mestiere e lo sanno fare come pochi altri in Italia, devo dire che, da uomo che da sempre campa di scrittura e di scrittura applicata a argomenti legati al mondo dello spettacolo, musica in primis, mi sono spesso trovato in situazioni analoghe. Accompagnando i miei quattro figli alla scuola materna, è sempre lì che si verificano le prime indagini sulla natura dei propri genitori, per la prima volta a confronto con altri simili, accompagnandoli nel corso degli anni, ovviamente, i miei quattro figli hanno in parte età differenti, oggi venti la primogenita, sedici il secondogenito e dieci gli ultimi arrivati, gemelli, mi è stato spesso chiesto che lavoro facessi io, spinti a questa domanda dal fatto che, a differenza di buona parte dei papà presenti in loco, in realtà una minoranza rispetto alle mamme, io non vestissi come gli altri, in completo grigio, io avessi i capelli lunghi e la barba folta, gli altri pettinati e sbarbati, e soprattutto io poi tornassi a casa, quando capitava loro di star male, all’epoca per semplice influenza, era lì che mi vedevano, spesso sul divano a guardare la tv, a volte a ascoltare musica, a tratti davanti al PC a scrivere, ore e ore al telefono. Questo sapermi in qualche modo diverso dagli altri papà, seppur noi si viva a Milano, città nella quale non sono certo una mosca bianca, come invece sarei potuto essere fossi rimasto in Ancona, per dire, dove però con buona probabilità ora farei un altro mestiere, per discendenza lavorerei all’azienda di trasporti locale, credo, li lasciava in qualche modo incuriositi, seppur privi di qualsiasi forma di giudizio o pregiudizio, quelli sono parte delle sovrastrutture degli adulti, e comunque sono sempre stato un papà molto figo, di quelli che sa tutto sui cartoni in circolazione, sui manga, poi, appunto, sulla musica da ragazzini, sui social e gli influencer, mica come quelli che poi corrono in ufficio a muovere milioni di euro.

In realtà, ma questo ovviamente i miei figli non potevano saperlo, cosa io facessi e faccia delle loro maestre, come poi buona parte dei professori, lo sapevano benissimo, perché i pezzi che scrivo li firmo, perché compaio in televisioni, ogni tanto, in certi periodi anche spesso, e spesso in programmi piuttosto popolari, penso al DopoFestival proprio con la Gialappa’s e Nicola Savino, penso a Striscia la Notizia, motivo che li ha visti abbastanza spesso testimoni di situazioni in cui perfetti sconosciuti mi fermano perché mi hanno riconosciuto e mi chiedono o dicono qualcosa, in strada, in un locale, una volta anche dentro la Santa Casa dentro la Basilica di Loreto, fatto, questo, che vivo sempre con grande disagio, perché a me di farmi un selfie o parlare con uno sconosciuto non verrebbe così naturale, non fosse parte del mio non-mestiere, e perché, privo come sono di memoria, impiego sempre un numero eccessivo di neuroni prima di capire che chi mi ha fermato lo ha fatto perché conosce me ma io non conosco lui/lei, quindi non devo sforzarmi in eccesso per riconoscerlo o far finta di averlo riconosciuto. Comunque, almeno per i primi anni della vita di tutti i miei figli, io sono stato quello che guarda la televisione, quello che sta al telefono, quello che scrive, quello che conosce i cantanti, quello che lavora in radio, quello che scrive i libri, mai uno che abbia un lavoro raccontabile attraverso un nome, fa l’ingegnere, l’architetto, molti dei genitori dei compagni dei miei figli sono architetti, abitando noi in una zona limitrofa al Politecnico, dove evidentemente i genitori si sono inizialmente fermati per studiare e poi hanno deciso di mettere su famiglia, il medico. No, io sono uno il cui mestiere va sempre raccontato aggiungendo dettagli, come se uno solo di quelle pratiche non fosse sufficiente, e in effetti non lo è mai, sufficiente. Nessuno, credo, ha mai detto che faccio il cretino, anche se a dirla tutta avrebbe anche potuto, comodamente. Ignorano, almeno i più piccoli, che non mi hanno mai letto, che finiscono spesso dentro i miei scritti, esattamente come maestre e professori, specie da che siamo sotto pandemia, fatto che, suppongo, li spinge a monitorare quello che pubblico, tutto torna. Negli ultimi tempi, va detto, la situazione ha preso una piega differente. Da una parte loro, i figli, sono cresciuti, quindi che io sia uno che scrive, prevalentemente, comincia a essergli chiaro, sono venuti a mie presentazioni, quando mi fermano in giro sentono quello che gli sconosciuti che fingo inizialmente di riconoscere, salvo poi identificare per quel che sono, gente che mi ferma perché ha riconosciuto me, sentono quello che gli sconosciuti che fingo inizialmente di riconoscere mi dicono, spesso complimenti, a volte richieste di un selfie, fatto che li induce, parlo dei più piccoli, a riconoscermi per quello che per altro non sono, un personaggio pubblico, uno che la gente, appunto, ferma per strada. Hanno anche fatto ricerche su Google su di me, le vedo, visto che usano i miei account, fatto per altro che a tratti mi mette in imbarazzo, specie quando coi miei account vanno a commentare qualcosa di loro interesse, non oso immaginare cosa accadrà se mai un giorno uno di loro dovesse diventare un fan di Laura Pausini o di Emma, per dire, la meraviglia delle due cantanti nel leggere quei miei commenti mielosi e spesso scritti con ovvio stile infantile, alternati a mie stroncature violente. Ricordo del resto il disagio di mio figlio Tommaso, all’epoca tredici anni, quando Young Signorino mi ha dedicato una storia su Instagram, in quel caso il mio essere in qualche modo un personaggio pubblico entrava nel suo mondo, e ripensando a me quando ero adolescente immagino che avere un padre che irrompe nel proprio immaginario in quel modo non sia il massimo, credo che peggio solo il figlio di Edvige Fenech, immagino mio coetaneo. Questo mio scrivere, ovviamente, non vuole essere un sottolineare a più riprese come io sia il cretino certificato dalla risposta del figlio di Marco Santin, mi piace fare autoironia, ma non sono autolesionista, né un mio rivendicare una modesta fama, per altro spesso malriposta, essere riconosciuti perché si è finiti dentro la televisione non è esattamente una certificazione di qualità, né di valore, credo. È piuttosto un punto di partenza, lungo e tortuoso, è vero, ma comunque un punto di partenza. Un punto di partenza che ora prevede una prima tappa, poi scoprirete se di tappa intermedia o meta d’arrivo si tratta.

Il viaggio in questione, va detto, non è di quelli che si fanno in auto, magari in strade panoramiche, quanto piuttosto un viaggio fatto in aereo, si sale in una determinata città, si abbassano i coprifinestrini, ci si addormenta, e quando ci si sveglia si sta per atterrare in un altro posto, lontano e con caratteristiche evidentemente diverse dal punto di partenza, a volte anche con un altro clima, un altro fuso orario, a volte anche una stagione differente. Chiaro, un viaggio è un viaggio, e nessuno parte per un viaggio in auto e poi si ritrova di colpo in un altro continente, partito con la giacca a vento e di colpo lì in bermuda e infradito, quindi una qualche linearità questo viaggio dovrà comunque mantenerla, una coerenza interna. Sono un cretino, è vero, ma un cretino professionale, competente.

E sono un cretino, appunto, che ha dei figli e in quanto un cretino con figli ha modo giornalmente di confrontarsi con quella che è la musica che a loro piace, come anche con le serie e i film, i video, le mode. Non che questo implichi che io poi passi più tempo degli altri genitori a confrontarmi con l’immaginario dei propri figli, come tutti i genitori tendo a guardare tra il basito e l’indignato, per la totale assenza di gusto nel loro DNA, tutto quello che rientri nel loro campo di interessi, ma diciamo che è da loro che passa una buona parte del mio riuscire o meno a intercettare alcune istanze in voga tra quelli nati nel nuovo millennio. Il sentirli parlare, i tic, i vezzi, le parole usate in maniera differente rispetto a quella per le quali sono state concepite o abitualmente vengono utilizzate da noi adulti, mi fornisce, è evidente, potrei dirlo immagino anche fossi un insegnante o comunque un educatore a contatto per lavoro coi più giovani, uno sguardo privilegiato rispetto a un mondo che altrimenti mi apparirebbe ostile, o almeno più ostile di quanto già non mi appaia. Perché non basta ritenersi giovane per essere giovane, questo mi è piuttosto chiaro, e mi era chiaro anche prima di diventare padre, quando cioè per qualche tempo non ho avuto nessun punto di contatto con le generazioni successive alla mia. E lì dove non arriva il mio provare a andare a braccio, procedere con il fare degli antropologi in mezzo a un terreno sconosciuto, misterioso, ripeto, ostile, esperienza comune a chiunque non voglia semplicemente alzare un muro generazionale, alzare le mani, invocare una pena lieve, o anche solo dedicarsi alla pratica del quieto vivere, ognun per sé e Dio per tutti, interviene appunto il cretino professionale di cui sopra, quello che prende quelle apparenti stravaganze in termini di comunicazione e espressione artistica, confesso che anche impegnandomi non sempre mi è chiaro il confine nel caso specifico, e prova a decifrarli, addentrandosi in analisi, facendo confronti, sottolineando dettagli che mi paiono rilevanti, e, in ultima analisi, provando a dare un senso a quello che spesso un senso sembra non averlo. Stare sul pezzo, però, non è tanto un praticare la mia professione, raramente scrivo di quello che viene evidentemente proposto a una generazione differente dalla mia, sarebbe come provare a recensire un romanzo scritto in una lingua che non ho mai studiato, se non da autodidatta, senza per altro aver avuto mai modo di praticarla fuori dalla mia casa, quanto piuttosto il mio modo di provare a capire, trovare argomenti di confronto, magari, sono una persona evidentemente supponente, al limite dell’arroganza, provare anche a delineare dei canoni, come un cartografo che per primo evidenzi la sorgente di un fiume, apra una pista, delinei un territorio sconosciuto.

Ovviamente nella stragrande maggioranza dei casi mi limito a ascoltare, guardare, leggere e non capire, tra lo schifito e il perplesso, finendo per allestire improbabili paragoni con quello che girava ai miei tempi, il boomerismo lì, a alzare la mano come a dire “posso sedermi al tuo fianco?”. Per questo, anche per questo, non solo per questo ma anche per questo, rimango letteralmente meravigliato, di quella forma di meraviglia che ti fa spalancare la bocca, accelerare le pulsazioni cardiache, aumentare la sudorazione, quando vedo miei coetanei, o peggio, gente anche più vecchia di me, che invece si confronta con quel “linguaggio”, chiamiamo generosamente così tutto quel che arriva o si rivolge alle generazioni di quelli nati nel nuovo millennio, e lo fa proprio, o quantomeno prova a farlo proprio, senza necessariamente apparire come Totò e Peppino che in piazza Duomo, a Milano, vestiti con colbacchi e pellicce provano a parlare con un vigile in una sorta di francese approssimativo, “Noio voulavant savoir per andare dove dobbiamo andare, dove dobbiamo andare?”. Io non ne sono affatto capace. A tratti non ne sono orgogliosamente capace, come di chi di fronte a un atto di bullismo di gruppo si tira indietro, anzi, prova a fermare la violenza inconsulta, anche a rischio della propria vita.

La domanda che continua a girarmi in testa, in questi casi, costantemente, quasi un’ossessione, è quale sia la differenza, se differenza c’è, tra giovanilismo e contemporaneità, e se per essere contemporanei, in caso, serva rinunciare alle proprie radici, ai propri abiti abituali, per andare a indossarne di nuovissimi, poco conta se ci stanno bene addosso, se ci piacciono e se, anche questo, nel mostrarci conciati in quel modo non appariamo estremamente ridicoli. Domanda che ovviamente non ha una risposta definitiva, anche se quel mio usare il termine “conciati” sottintenda una mia presa di posizione a favore di una certa staticità, e la cui esistenza, signori della corte, dovrebbe comunque essere acquisita come prova della mia flebile volontà di non tirare su palizzate e fortini. Sono un cretino, quindi, professionale e con una grande dose di buona volontà, uno che magari non ci riesce ma comunque ci prova, studia, si confronta, tiene a bada i propri legittimi pregiudizi, qui seduto sul divano, la tv accesa che manda un nuovo episodio di Yellowjackets (ma quanto è figa la sigla iniziale, No return, eseguita e scritta da Craig Wedren e Anna Waronker, disturbante al limite dell’asfissia, come in effetti la serie stessa, quelle tastiere alla Stranglers, roba da applausi), un cretino che però, sia messo agli atti, nonostante tutto ascoltando una canzone come Seta di Elisa, lei, quarantaquattro anni compiuti a provare a fare la ragazzina, rinunciando al proprio stile, al proprio talento, anche alle caratteristiche salienti della propria voce prova a fare la ragazzina, quella urban, che segue le mode, mi immalinconisco, al limite della disperazione. Andateglielo a spiegare voi, poi, ai miei figli, che se papà sta singhiozzando, gli occhi carichi di lacrime, è solo per una questione di lavoro.

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