Serve un qualche cazzo di presente

Vi parlo di Sanremo e della musica di oggi utilizzando i pensieri e la filosofia della serie cult Boris


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Questa è l’Italia del futuro, un paese di musichette, mentre fuori c’è la morte.

Siamo oltre il postmoderno. Oltre l’ipermoderno.

Siamo al citazionismo del citazionismo, e evocando la Locura stiamo provando a tirare in ballo un giovane Valerio Aprea che ferma a imperitura memoria il presente, altro che il futuro, impartendo a un indolente Renè Ferretti di Boris una lezione di sociologia o a Willie Peyote che l’anno scorso ha provato, anche un po’ da paraculo, a alzare il ditino e sottolineare un paradosso, salvo poi mandare tutto a puttane provando a esercitare il sacrosanto diritto al politicamente scorretto?

Vallo a sapere.

Nei fatti, consci della verità di quelle incredibilmente lucide parole, pronunciate con foga nel buio di una sala regia, in assenza quindi di pubblico, noi impersonati dall’autore che russa, di lato, chiedendo anche un legittimo silenzio che non disturbi il sonno, e consci che il linguaggio usato nei passaggi salienti del discorso ormai divenuto iconico de La locura oggi sia irricevibile, uso una parola orrenda entrata nella nostra mesta quotidianità attraverso la voce orrenda, non nella pasta o nel colore, ma nella sostanza, di Andrea Scanzi, sempre lì a usarla sotto i riflettori, appunto, pensate voi oggi qualcuno che usi un termine come “frociaggine” e non venga inchiodato a una metaforica croce, anche Platinette nel mentre non è più il Platinette di una volta e la lambada, la cazzo di lambada indicata come archetipo di quella frociaggine strana, colorata, allegra e smaliziata come una cazzo di lambada, è finita nel dimenticatoio, ancor più della macarena, che almeno resiste in certe balere romagnole, bullizzata dal più macho e patriarcale reggaeton, nei fatti, consci di tutto questo, provando a spolverare via da quel monologo, di questo si tratta, lo strato polveroso del compiacimento, il sapere a memoria qualcosa che è generazionale, oggi toccherebbe, immagino, a Zerocalcare, lasciare che parole tanto pesanti si confondano con la Delorean di Doc o sarebbe sì poco generoso e figlio di quella frociaggine colorata e luccicante, non ci rimane che provare a fare un ragionamento serio non tanto sul futuro, quanto sul presente.

Qui non si parla di televisione, del resto non se ne parlava neanche in Boris. Si parla di musica e si parla di musica, ci si prova, alla stessa maniera in cui in Boris si parlava di televisione e di cinema, provando a usarla come piano inclinato per lasciarci scivolare su tutto il resto, consapevoli che dichiararlo rende queste parole poco ironiche e anzi piuttosto supponenti, nel leggerle immaginatevele con una voce cavernosa e vagamente brasilianeggiante, da trans, meglio, da macchietta che vuole provare a imitare la voce di un trans, potrebbe agevolarvi questo esercizio intellettuale di provare a non prendere sempre tutto alla lettera.

Siamo a meno di un mese dall’inizio del Festival di Sanremo, per intendersi quello che, negli anni, almeno negli anni nei quali chi scrive era presente sul pianeta Terra, è stato vinto da gente come Tiziana Rivale, i Jalisse, Marco Carta, Valerio Scanu, faccio nomi a caso, ma nomi che comunque centrano esattamente il bersaglio, roba che avrebbe fatto storcere il naso non a intellettualoni “radical chic”, queste parole immaginatevele dette con la voce sgradevole di Matteo Salvini, quanto piuttosto un ascoltatore medio: nessuno ha mai guardato al Festival cercando la qualità, quanto piuttosto un intrattenimento vuoto e neanche troppo divertente, così come si guardava Drive In per le tette di Tinì Cansino, non certo per Faletti o il Paninaro. Un tempo esisteva appunto qualcosa da contrapporre violentemente al Festival, penso al Club Tenco, quello che ora lo rincorre rinunciando agli aggettivi, nessuno provava neanche a dire per scherzo che il Festival era ricevibile, vedi tu a cosa ci ha portato “questa cazzo di locura” portata avanti da Fabio Fazio e a scendere da tutti gli altri. Siamo a meno di un mese dal Festival di Sanremo e nessuno, sembra, si è ancora preso la briga di sottolineare come il volersi nascondere dietro l’abusato slogan “show must go on”, pensate a che fine ha poi fatto chi la cantava a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, sia una resa, più che un tentativo di sovvertire in zona Cesarini il risultato finale. In un’epoca di omologazione spinta ma stanca, di conformismo coatto, di pensiero irrigidito come il tutore di Morandi su cui torno tra qualche riga, sentimenti che imperano dentro la narrazione politica, pandemica, dentro il mondo della finanza, figuriamoci in un luogo devastato, una Sarajevo dopo i bombardamenti e il crollo del ponte come la filiera musicale, in un’epoca piatta culturalmente come quella in cui stiamo vivendo ci stiamo ritrovando, senza uno straccio di dissenso, a guardare al Festival di Sanremo come a qualcosa che meriti non una risata sardonica, ma compiaciute pacche sulle spalle a chi lo fa, a chi lo racconta come passaggio degno di fermare lo spirito dei tempi, e se non osa tanto comunque di chi prova a innalzarlo oltre la soglia del trash. Forse il problema è tutto lì, il trash, l’emulazione fallita di un modello alto, ha certificato quel genio incompreso di Tommaso Labranca, freddo osservatore della contemporaneità che oggi viene brandito come bandierina alla parata del 4 luglio da tutta una accozzaglia di versione trash di lui stesso, gente che si compiace di quella frociaggine colorata e luccicante, senza mai riuscire a affondare un bisturi, quanto piuttosto provando a passare con cura lo smalto metaforico sulle dita. Finendo, e qui torniamo a Boris, nel rendere odierna la visione apocalittica della Locura. “La locura, la pazzia, la cerveza, la tradizione, o merda come la chiami tu, ma con una bella spruzzata di pazzia. Il peggior conservatorismo che però si tinge di simpatia, si colore, di paillette.”, basterebbe vedere come siamo passati dal prendere beatamente per il culo le trashate dell’Eurovision al guardare a quel carrozzone come a qualcosa di serio, di importante, di addirittura visionario. La colpa non è ovviamente solo di Fazio, ci mancherebbe, penso ai danni fatti da un Marco Giusti, lì a sdoganare il peggior cinema di serie Z, chi guardava i film con Edvige Fenech voleva vedere un po’ di peli di figa, sia messo agli atti, quelle che Renè Ferretti chiama “le bocce”, del cinema non gliene fregava niente, penso ai danni fatti dai tanti intellettualini che hanno preso sul serio il postmodernismo, non nel senso di applicarne seriamente le istanze, quello andava fatto, quanto il considerare alto e basso la stessa cosa, confondendo il mezzo col fine, il metodo con il risultato, lì compiaciuti a dirsi che quello che era il regista di Maurizio Costanzo, tessera P2 1819, era lo stesso che cantava sulle barricate “compagni dai campi e dalle officine”, il voler essere Conti con il dileggiare la Contessa.

Sanremo è da sempre La merda. Quella di Renè Ferretti, esattamente quella. Quella che a un certo punto, altra scena archetipica, gli fa gridare “la qualità ci ha rotto il cazzo, viva la merda”, la resa finale di fronte all’impossibilità di inseguire l’alto, appunto, ma una merda che viene confusa per cioccolata, viene raccontata come cioccolata, viene gustata come cioccolata. Certo, dal Festival sono uscite anche buone canzoni, ma detto così sembra il meme di chi prende per il culo i fascisti che inneggiano alle tante cose belle, vai a capire quali, fatte da Mussolini, la stragrande maggioranza è merda.

Eccitarsi quasi sessualmente per le scuse ridicole con cui si tiene Gianni Morandi in gara, lo dico sostenendo che non lo avrebbero dovuto eliminare proprio perché di merda stiamo parlando, una cosa da non prendere affatto sul serio, mica penserete che sia serio, per dire, il fatto che quelli che fanno il mio mestiere, me compreso, i critici musicali, facciano le pagelle delle canzoni in gara, come fossimo a scuola? Eccitarsi quasi sessualmente per le scuse ridicole con cui si tiene Gianni Morandi in gara, la Rai a sostenere che la pubblicazione del video che conteneva buona parte del brano scritto per lui da Jovanotti sia stato un errore involontario dovuto al tutore che Gianni porta da mesi per l’ustione che lo ha ferito mentre bruciava erbacce nel suo giardino è qualcosa che appunto rappresenta platicamente la locura, un rallegrarsi compiaciuto di qualcosa che dovrebbe al massimo immalinconirci, se proprio volessimo essere seri, visto mai, addirittura farci incazzare, un intera comparto economico tenuto immobile, abbandonato da Dio e dall’uomo, vilipeso da chi ci guida, pronto a mettersi le paillette per qualche ora.

Oltre, quindi, le musichette mentre fuori c’è la morte. Le musichette mentre dentro, in sala, c’è la morte.

La chiudo con la voce di Aprea, provate a fare uno sforzo di immaginazione, l’ultimo, poi vado a piangere sul divano guardando Netlfix, “Renato, svegliati, serve un qualche cazzo di futuro…”. Anzi, no, serve un qualche cazzo di presente.