Diabolik, i Manetti firmano un film cerebrale e inattuale, che piacerà solo ai cinefili

Il film con Marinelli, Leone e Mastandrea lascerà interdetti gli spettatori, senza emozioni o personaggi in cui immedesimarsi. Ma il film è solo apparentemente freddo, pieno dell’amore dei Manetti per l’immaginario anni Sessanta

Diabolik

INTERAZIONI: 5

È destinato a polarizzare nettamente i giudizi tra addetti ai lavori e spettatori questo Diabolik, progetto atteso e lungamente accarezzato dai suoi autori, i Manetti Bros., che giunge dopo più di cinquant’anni dall’ormai leggendaria e molto diversa versione di Mario Bava. I critici da un lato, soprattutto quelli più adulti, paiono affascinati dall’operazione apertamente teorica e cinefila dei Manetti, questi alfieri del cinema di genere sin dai tempi in cui la cosa era tutt’altro che di moda. I quali però, sconfessando sé stessi e il loro stile solitamente sgargiante e caloroso creano un oggetto algido, scostante, che punta a tradurre le tavole del fumetto in immagini che ne ricalcano la fissità, la bidimensionalità e la pulizia formale, con le espressioni fredde ed enigmatiche di personaggi eternamente sfuggenti.

Dall’altro invece c’è il pubblico – a proposito, nel primo giorno sono solo 15mila gli spettatori, e non parliamo di effetto Covid perché nel frattempo Spider-Man: No Way Home sta facendo sfracelli milionari –, che rischia di rimanere spiazzato da una pellicola fuori del tempo, un fossile cinematografico che sembra sbucato fuori con cinquant’anni di ritardo, che dell’ipercinesi da action o comic movie contemporaneo non ha nulla, assai più prossimo a un dignitoso e compunto sceneggiato Rai anni Sessanta.

La storia, che pure presume naturalmente uno spettatore consapevole e ben informato, va alle origini di Diabolik, per stabilire le coordinate fondamentali della vicenda e le relazioni tra i personaggi principali. Coadiuvati in sede di sceneggiatura da Michelangelo La Neve, i Manetti Bros. sono partiti da uno dei primissimi episodi della serie creata dalle sorelle Giussani nel 1962, L’arresto di Diabolik, l’albo numero 3. Si comincia con una sequenza (molto moderatamente) d’azione in cui lo spietato criminale, interpretato da Luca Marinelli, sfugge dopo l’ennesimo colpo all’arcinemico ispettore Ginko (Valerio Mastandrea).

Dopo comincia la vera storia, ambientata in quel paese inventato, Clerville, così riconoscibilmente italiano – cosa che i Manetti non intendono dissimulare, per un film girato tra luoghi e architetture che profumano di Novecento, tra Bologna, Milano e Trieste  – con l’entrata in scena di Eva Kant (Miriam Leone), bellissima vedova ed ereditiera, concupita da George Caron (Alessandro Roja), un politico con forse qualche scheletro nell’armadio, e puntata dallo stesso Diabolik perché proprietaria di un preziosissimo diamante rosa che il ladro vuole a ogni costo. Solo che il loro incontro sorprenderà entrambi, creando un inatteso sodalizio, che potrà subito essere messo alla prova di un nuovo colpo, sempre con Ginko alle calcagna.

Da sinistra Antonio Manetti, Valerio Mastandrea, Miriam Leone e Marco Manetti sul set

Avranno un bel daffare gli spettatori a cercare un sentimento, un personaggio cui appigliarsi per trovare una chiave per entrare dentro Diabolik. Luca Marinelli è immoto, indossa la freddezza pragmatica del bandito che quando uccide lo fa senza alcun piacere, in maniera del tutto funzionale ai suoi scopi, e anche quando ama – sebbene la sua passione per Eva, almeno a giudicare dai rischi che corre per lei, pare bruciante – non rivela alcuna emozione. Maestro nell’uso di maschere che gli consentono di trasformarsi in chiunque, sembra egli stesso una maschera, un volto impassibile senz’anima, pura e cinica volontà criminale scevra da ulteriori motivazioni.

Ginko è il suo doppio speculare, zero psicologia, tutto risolto nel suo compito di intelligentissimo cacciatore del cattivo, senza il quale il suo personaggio probabilmente si dissolverebbe. Allora l’unico obiettivo possibile per cercare un qualche brandello di immedesimazione spettatoriale è Eva Kant. Una femme fatale dai riflessi hitchcockiani, bionda e algida esteriormente e intimamente oscura, con la vertigine di uno chignon che anch’esso rimanda al maestro del brivido. Come fanno d’altronde le musiche calligrafiche di Pivio e Aldo De Scalzi che si rifanno scopertamente alle atmosfere di Bernard Herrmann, l’autore delle colonne sonore dei film psicologicamente più contorti di Hitchcock, La Donna Che Visse Due Volte, Psycho, Marnie.

E calligrafico è tutto Diabolik, che tra il nume tutelare sir Alfred e le atmosfere del fumetto vuole restituire lo stile, il ritmo senza concitazione, persino una certa sobrietà comportamentale propri degli anni Sessanta o meglio dell’immaginario degli anni Sessanta. Perché la realtà di quel decennio per i Manetti, troppo giovani per averli vissuti, è inattingibile, e dunque il loro scavo in quel mondo non può che passare attraverso i dispositivi narrativi di quell’epoca per come li hanno recepiti e metabolizzati, tempo dopo, due autentici cultori.

Che in Diabolik, loro di solito così sanamente volgari – nel senso migliore della parola, pensiamo alla concretezza espressiva del loro dittico napoletano Song ’e Napule e Ammore e Malavita, così generosamente pieno di umori, toni, volti – mostrano una insospettabile eleganza formale e formalista, trovando uno stile “nordico”, cerebrale, che assomiglia al loro affilatissimo Diabolik, il quale sembra un uomo senza sentimenti, una pura macchina razionale pianificatrice. Che è quanto gli chiede anche Eva, impaurita dalla sua totale sicurezza e mancanza di emozioni. In realtà non è così: il cuore di Diabolik batte come quello di ognuno di noi. Vale lo stesso per questo film: in cui l’emozione è tutta nella dedizione incredibilmente appassionata, filologica, che i Manetti hanno speso per realizzare un oggetto affettuosamente, ardentemente inattuale.

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