I Fratelli De Filippo, l’arte di emanciparsi dal padre

Dal 13 al 15 dicembre al cinema, il film di Sergio Rubini ripercorre le origini della carriera di Eduardo, Titina e Peppino. Dal sofferto rapporto col padre naturale, il commediografo Eduardo Scarpetta, alla nascita della loro compagnia

I Fratelli De Filippo

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I Fratelli De Filippo diretto da Sergio Rubini conferma l’inesausta, anzi rinnovata attenzione non solo per la straordinaria figura di autore e attore di Eduardo De Filippo, ma insieme a lui di quella grande tradizione teatrale napoletana saldata nel segno dell’appartenenza familiare che lega i tre De Filippo, Eduardo Titina e Peppino, al padre naturale e commediografo Eduardo Scarpetta. Solo nell’ultimo paio d’anni c’è stata l’operazione, ancora in corso, promossa dalla Rai con Picomedia, le tre riletture televisive dirette da Edoardo De Angelis di testi edoardiani, Natale in casa Cupiello, Sabato, domenica e lunedì, e Non ti pago. Poi la chiave intimista del documentario Il Nostro Eduardo, in cui i suoi nipoti hanno aperto l’album dei ricordi familiari ricostruendone un ritratto affettivo e dall’interno.

Infine, quasi un dittico speculare per l’almeno parziale coincidenza tematica e cronologica, il Qui Rido Io di Mario Martone, passato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, che si focalizza sulla meno nota storia di Eduardo Scarpetta, riservando un ruolo anche simbolicamente molto rilevante ai tre giovanissimi De Filippo, e ora il film di Sergio Rubini, per tre giorni nei cinema, dal 13 al 15 dicembre, che segue la prima parte della carriera dei tre fratelli, fino al debutto nel 1931 sotto il nome di Compagnia del Teatro Umoristico I De Filippo.

Va detto che l’inevitabile paragone che si attiva con Qui Rido Io non giova a I Fratelli De Filippo di Rubini. Martone restituisce una visione complessa degli Scarpetta, con al centro il pater familias Eduardo che crea un contorto universo endogamico costituito da una grande famiglia allargata che comprende, riunite praticamente sotto lo stesso tetto, tutte le donne della sua vita, tra loro imparentate. E nel suo approccio il teatro si fa simbolo e messa in scena della paternità negata che costituì una ferita profonda per i figli naturali De Filippo, che da bambini chiamavano Scarpetta “zio” e lo trattavano da tale.

I Fratelli De Filippo, invece, che nelle intenzioni di Rubini dovrebbe essere il primo capitolo di un racconto più ampio sui De Filippo, è mosso da un intento didascalico, sempre preoccupato di prendere questo grumo emotivo cosi denso e schematizzarlo in un meccanismo di opposizioni esemplari. Nel quale gli Scarpetta, prima l’autoritario, anaffettivo padre Eduardo (Giancarlo Giannini) e poi il figlio Vincenzo (Biagio Izzo) che ne eredita la compagnia, finiscono per indossare un ruolo univocamente negativo, che frena i desiderio di rivalsa, e insieme di rinnovamento artistico, che invece soprattutto Eduardo De Filippo persegue in maniera inesausta.

Non giova anche a I Fratelli De Filippo una costruzione drammaturgica che procede attraverso scene madri esageratamente esplicative. Il momento in cui i tre bambini spiando una conversazione tra Scarpetta e la loro mamma Luisa scoprono che lo zio è il padre. Oppure il dialogo tra Scarpetta e un Eduardo ormai cresciuto, in cui il primo deve ammettere le qualità d’artista del figlio naturale (“Ti sei arrubbato l’arte”), mentre da dietro le quinte Vincenzo Scarpetta li ascolta e comprende l’amara verità, e cioè che lui viceversa del padre ha ereditato il nome ma non il talento.

Allo stesso modo ne I Fratelli De Filippo è sbrigativo il ritratto d’epoca. Ambientata in gran parte negli anni Venti del fascismo, non c’è nulla nel racconto di Rubini che rimandi al regime, né tantomeno al contesto culturalmente e artisticamente vivace della Napoli del tempo. È sempre tutto condotto lungo l’asse Scarpetta-De Filippo e l’unico volto, anzi una voce quasi fantasmatica, che compare fuggevolmente e in maniera incongrua è quello di Totò, senza una precisa necessità narrativa. Della dialettica delle rigide opposizioni finisce per fare le spese anche Milano, dove Eduardo fa una breve esperienza in una compagnia di prosa in lingua, città inevitabilmente nebbiosa, umanamente ambigua, attardata su un teatro passatista da cui il giovane attore non può che fuggire il prima possibile.

Il film ruota intorno a un momento che fa da cornice, aprendo e chiudendo il film, ossia il debutto di Natale In casa Cupiello nella prima versione in atto unico al cinema teatro Kursaal nel 1931, che segna la nascita della compagnia dei De Filippo e simbolicamente, l’emancipazione dal padre. Anche qui la preoccupazione è quella di fornire allo spettatore una drammaturgia lineare, senza sfumature o ambiguità. E questa incapacità di osare un racconto più adulto è un peccato, perché non si può dubitare della sincerità de I Fratelli De Filippo, nel quale la nota più apprezzabile è costituita proprio dall’affiatato terzetto d’attori, Mario Autore, Domenico Pinelli e Anna Ferraioli Ravel (rispettivamente Eduardo, Peppino e Titina), i quali impegnati in una sfida non semplice si sforzano di smarcarsi dall’inevitabile mitologia per dare vita a figure concrete, ritratte nelle loro aspirazioni, dolori, conflitti.

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