Che pianto questa mia Milano che ha paura del Natale, paura di se stessa

Quanto sai essere squallida Milano, quando vuoi, quanto riveli il tuo lato crudele, la tua disperazione miserabile e inguaribile!


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A Milano non ride nessuno. E va bene che la Stazione Centrale è il museo delle mascherine, ma gli occhi non mentono però. Sguardi bassi, traiettorie spente, la fretta automatica che non va da nessuna parte. Sono tornato per vedere come funziona il supergreenpass, quella trovata che secondo il nostro infallibile presidente Draghi metteva in sicurezza i vaccinati e dopo una settimana i contagiati col vaccino sono esplosi. In tutti i sensi. Fuori dalla Stazione, che non è più da un pezzo quella inaugurata dal Duce nel 1931 su progetto dell’architetto Ulisse Stacchini, con la vergogna imperitura del binario 21 da cui partivano i treni degli ebrei diretti ai lager, è tutto un incubo di maxischermi e di tecnologia frigida, un centro commerciale con dietro dei convogli che arrivano e spariscono in continuazione, fuori dalla Stazione dicevo di controlli non se ne vedono; neanche dentro, per la verità. Insomma ci vanno leggeri. Nel piazzale dei taxi, tutti bianchi, tutti in attesa, quasi nessuno che lo prende, un barbone, enorme, coperto di coperte, si agita ma non da fastidio a nessuno. A patto di non farlo incazzare, questo è certo. Poi quelli che sono lì non per caso, da ogni parte del mondo porco, e ti chiamano, ti salutano, ti chiedono, ma nessuno li disturba, le auto blu e bianche della polizia restano in disparte, quasi paternaliste. In macchina il traffico è sempre lo stesso, anche di venerdì pomeriggio, il gigantesco polmone meneghino sputa mezzi e gas di scarico che esalano tra luci di Natale stente, fosche. Mancano due settimane ma sembra un’attesa senza età.
Alla Barona, quartiere popolare, periferico, di fama preoccupante, non c’è aria di festa incombente e neanche festoni. In un baretto una puttana alcolizzata vaneggia da sola seduta al tavolino, dal telefonino non arrivano chiamate ma solo le immagini di qualche videogioco straziante. Anche a Lambrate, periferia opposta, a est, il tempo non c’è più. Potrebbe essere qualsiasi giorno dell’anno, non certo il periodo natalizio che qui a Mediolanum parte l’8 dicembre, festa dell’Immacolata, anzi il giorno prima, con l’inaugurazione della Scala, di cui abbiamo parlato e che ha lasciato un focolaio con 14 positivi, naturalmente tutte maestranze perché i ricchi sono immuni per dichiarazione dei redditi e per tendenza ideologica. Nella piazza Gobetti dove ho speso i migliori anni della mia vita, ah che partitelle mitiche!, che esaltazioni pomeridiane!, hanno spianato i giardinetti e chissà che ne faranno: eccole tutte lì, le panchine verdi, decrepite che usavamo come porte, staffilate di precisione e il pallone s’infilava sotto, rimbalzava sul cordolo, s’impennava come un missile. Di tutti i negozi della mia adolescenza, non ne è rimasto uno. Con l’amico di una vita entriamo in un bar che un tempo era una pizzeria, adesso ci stanno i cinesi e noi, come gli amici patetici che invecchiano, alla “Amici Miei”, non resistiamo dal prenderli per il culo: “Tu voli caffèè?”, chiedo a Tony con inflessione orientale e lui pronto recepisce, risponde: “E’ buooono!, colletto Covid!”. Il barista cinese ci guarda obliquo, ma non cortese.
Ma vuoi farci scherzare un po’ anche a noi, in questo Natale che non esiste, in questa Milano che non se ne accorge, triste, spenta, senza cuore? Il capolavoro del governo dei competenti, del primo ministro “grande tecnico” è un’aria pesante, peggio di un anno fa, un’isteria alimentata ad arte, lo spettro dell’ennesima proroga dello stato di emergenza, perché si debbono mettere d’accordo, trasformare il tecnico da premier in Presidente, ma lui vuole il Colle già alla prima votazione, crede di meritarlo, e al suo posto non si sa chi metterci, quelli eletti in nome dal popolo decidono tutto alla maniera mafiosa, il popolo non esiste, si potrebbe accorpare le cariche, tanto la democrazia e la Costituzione l’abbiamo bell’e sepolte. Che ne dite?
E così lo stato emergenziale continua in eterno e il Natale svanisce. Rinunce dell’80%, 40 miliardi persi, pochi o nessun turista qui a Milano, la disdetta degli alberghi a getto continuo. Corso Buenos Aires, che sarebbe la via commerciale più lunga d’Europa, 3 chilometri continui di negozi in un senso, 3 nell’altro, ha certe lucette patetiche, come presaghe del tempo che verrà. Negozi più vuoti che pieni, nessuno che esca con un pacchetto regalo: mancano 15 giorni alla festa più consumistica dell’anno e io ripenso a certi Natali anni ’70, quando si diceva che eravamo in crisi, alle luci sfavillanti, alla frenesia del Natale che si sentiva ogni ora di più, e mi viene da piangere. Per non dire dei Natali d’oro e di sangue dei ’60, della post ricostruzione, che erano un delirio di gioia drogata, feste e violenza, spese e rapine. Piazza San Babila è un baraccone da luna-park, ma inoltriamoci pure nel corso che porta al Duomo: la mascherina ce l’hanno tutti ma la più parte sotto al mento: nessuno ferma nessuno, di controlli neanche l’ombra. Nella immensa piazza dove splende, ma neanche tanto, l’albero gigante, all’ombra della Madonnina dorata, non sembra questa gran ressa. E anche qui di truci controlli non se ne avvertono, due vigilesse, piuttosto belle dietro il bavaglio verde, parlano tranquille con due o tre tipi che probabilmente conoscono. Ma insomma dove stanno queste verifiche a campione? Sarò fortunato o sfortunato io, ma non ne ho incontrate. Come se il potere fosse già pago di avere smorzato il possibile, di avere tolto a quei poveri cani di cittadini l’ultima delle illusioni a forza di numeri cialtroni, di allarmi di virologi mascalzoni, di scenari da tregenda che non si verificano, della Omicron che doveva sterminare il genere umano e si sta rivelando un raffreddore, nessuno parla più ma vogliono introdurre la tripla dose trimestrale, totale 12 dosi l’anno. E chi lo vuole? Le case produttrici, e naturalmente i medici più o meno mantenuti, i politici più o meno corrotti, i giornalisti embedded, senza più o meno, insistono, a partire da quando il nascituro esce dall’utero. Più siringati, meno festeggiati.
Che pianto però questa mia Milano che ha paura del Natale, paura di se stessa. Che dopo le 8 di sera sparisce, si rintana, centro o periferie è uguale. Sotto il ponte della Ghisolfa, da una finestra all’ultimo piano di un palazzo vecchio esce una luce cupa, di un blu sporco, lugubre, ma chi ci vive lì dentro? Ecco, adesso il blu diventa rosso, un rosso sangue malato, infetto. Quanto sai essere squallida Milano, quando vuoi, quanto riveli il tuo lato crudele, la tua disperazione miserabile e inguaribile!
Il mio amico non se ne avvede, ma lui è abituato, io invece ci torno di rado e lo vedo, lo sento che non è la stessa cosa: non c’è Natale né d’oro né di rame, i tuoi viali sono budelli oscuri, non ti trovo più città, sei ovunque uguale nei tuoi quartieri senz’anima, ci sono queste biciclettine rosse, orrende, lasciate dappertutto, sono quelle del Comune che si noleggiano con la app, biciclettine e monopattini, la nuova economia dello “sharing” che sarebbe condividere, noleggiare, la proprietà no, è un furto, come diceva Proudhon e come dicono oggi ancora i centri sociali e chi li protegge in cambio dei voti. Tranne la roba loro, è chiaro. Tutto dello Stato o del Comune, e tutto tramite la app. Peccato solo che le Tesla di quel pazzoide di Elon Musk abbiano avuto un blocco della app e in 500 non hanno potuto avviarla e son dovuti andare a piedi. Mamma, mi si è bloccato il monopattino! Ma dicono che con il megagreenpass sarà tutto collegato, verifica immunitaria, stato fiscale, app di tracciamento, di spostamento, di sanità mentale a insindacabile giudizio dello Stato, quindi a che serviranno più i controlli “a campione”? Difatti qui non se ne vedono.
Nell’albergo turrito di Rho, che vive grazie al brulicare di eventi fieristici, qualcosa non va: o perdono colpi anche questi, o anche il loro sistema è andato in crash, fatto sta che non mi avevano mai reso la vita tanto difficile. Fortuna che la mattina la colazione è confortevole come sempre. Tutti in piedi e mascherati, poi ci sediamo, gomito a gomito, e ci sputacchiamo allegramente in faccia: se mi contagio, succede qui. C’è un ragazzone pingue, del genere meridionale senza tempo, l’eterna maschera del Mezzogiorno un po’ frescona e un po’ feroce, che attacca bottone mentre io vorrei solo consumare in pace la mia brioscina; poi, siccome sono un cronista, ne approfitto e lo faccio parlare: è uno standista di non so che fiera dell’artigianato e si lamenta: “Eh, visite poche, affari pochi”. Ah sì, e come mai? “Perché la gente ha paura, pensano tutti di contagiarsi, poi c’è questo gran casino dei pass”. I pass? Immagino intenda il supergreenpass che funziona col QR. “Sì, sì, il pass, molti o non ce l’hanno o non gli funziona insomma ne succede sempre qualcuna”. Si vede che è come per la app della Tesla: va in crash e si crashano anche le palle. “Sì ma domani se Dio vuole è l’ultimo giorno”. Mi pare che l’artigiano non ne possa più e butto là una frase qualsiasi sul clima di terrore, una di quelle frasi a gettone che servono a far parlare l’interlocutore, un vecchio trucco da guitto della cronaca, ma mi accorgo di avere clamorosamente frainteso, il paisà che mi racconta è un ortodosso, uno che fa quello che gli dicono: “Io ho già fatto le prime due – dice compiaciuto – adesso sono pronto per la terza e me la faccio dove voglio e quando voglio, manco serve la prenotazione”. Bravo, vedi che il potere ti semplifica la vita. “Però non è proprio vero che ci sia l’emergenza nei reparti intensivi, ho una amica che è cugina di una che ha cognata che lavora al reparto intensivo a Padova e dice che la situazione è uguale precisa a agosto, sempre gli stessi numeri”. Quindi l’emergenza non c’è? “No, c’è sempre stata”. Perfetto: nessun dubbio, nessun interrogativo e il potere dice sempre la verità. La falsa coscienza, la dissonanza cognitiva, anche se qui di cognizione ce n’è poca, sono irreversibili. “Io c’ho 4 amici al mio paese, che è Solofra, tutti sui 40 anni, sono tutti morti d’infarto dopo la somministrazione, erano sanissimi. Però io non penso che c’entra il vaccino”. Bravo, non pensare, che è meglio. Dev’esserci un’epidemia di infarti spontanei a Solofra.
In treno arriva la controllora, va bene controllora?, che ha lunghi capelli biondi e una figura da indossatrice, e lineamenti presumibilmente incantevoli sotto la mascherina. Mi chiede “greenpass e biglietto”, ma prima il greenpass. Unica volta che me lo sento chiedere in due giorni. Ah, no, anche ieri sera, dove siamo andati a mangiare dei fantastici hamburger nel rinomato localino in viale Zara, ma c’era pochissima gente. Anche in albergo, adesso che ci penso: “Greenpass e prenotazione, grazie”. Prima il greenpass, che su tutto il resto si può trattare. Difatti passa un nucleo di balcanici, di quelli che, uno dopo l’altro, lasciano i bigliettini con improbabili strazianti storie familiari, per chiedere soldi: a questi il greenpass non lo chiedono, e neanche il biglietto. L’ordine regna a bordo del freccia bianca diretto al Sud: ad ogni fermata, l’interfono ripete il messaggio vagamente autoritario che invita a mostrare il greenpass al personale, in caso contrario “interverranno le forze dell’ordine”. Cioè ti portano via, ti deportano, forse dal binario 21 della Stazione Centrale. Anche la sopravvissuta Liliana Segre ha appena detto che i contrari, i manifestanti sono ignobili, idioti, ignoranti e non hanno alcun diritto. Fuori, la Pianura Padana è spettrale, coperta di neve, bianca di morte, pare Siberia. Siccome siamo nell’epoca delle app e della internet “delle cose” e di un sacco di altre faccende bellissime ma sempre di là da venire, per fare 500 chilometri di treno mi ci vogliono sei ore. Sempre mascherato. Siamo tutti imbavagliati e nessuno parla a nessuno, oggi Giorgio Caproni non potrebbe più scrivere il suo struggente “Congedo del viaggiatore cerimonioso”, non avrebbe senso. Altro strepitoso successo del governo dei competenti. Quando scendo non sono più abituato a respirare l’aria aperta, mi brucia la gola, i polmoni sono chiusi. Arrivo a casa, compare mia moglie e mi fa: “Eh, beato te che ogni tanto te ne scappi, chissà che atmosfera natalizia a Milano”.