A sorpresa La Casa di Carta 5 ritrova il suo spirito originario in un finale oltre le aspettative

La Casa di Carta 5 ritrova lo spirito originario con un buon finale, forse migliore di quanto ci si aspettasse: la nostra recensione degli ultimi episodi

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Onestamente sul finale de La Casa di Carta 5 non avremmo scommesso un soldo, dopo una prima parte di stagione caotica e apparentemente priva di una vera trama, incentrata più sull’azione fine a se stessa che sul racconto del brillante piano del Professore per svaligiare la riserva d’oro della Banca di Spagna. E invece ogni tanto tocca ricredersi.

(Recensione senza spoiler!)

La Casa di Carta 5 riesce inaspettatamente nella sua missione di mandare in porto una nave che dalla terza stagione in poi è parsa perlopiù senza rotta. Se la prima parte di questa quinta stagione aveva visto la banda di diseredati del Professore combattere contro la polizia e l’esercito con tanto di guerra di trincea dentro la Banca (e il sacrificio di Tokyo in versione kamikaze), la seconda riannoda i fili del macchinoso piano di Berlino e Sergio, i due fratelli ladroni, cresciuti con una vocazione per le rapine concepite come opere d’arte nel primo caso e d’ingegno nel secondo.

La Casa di Carta 5 nella sua seconda parte sembra tornare alle origini della serie, quando nelle prime due stagioni realizzate per Antena3, prima che arrivasse Netflix a rivoluzionare tutto, il fulcro della storia era proprio il genio assoluto del Professore, la capacità di studiare, realizzare e contenere gli imprevisti di un macchinoso ma brillante piano di rapina. La figura del Professore, più che appannata nella prima parte di stagione, ritrova qui la sua centralità esattamente come nelle prime due, quando aveva sempre un piano B da tirare fuori all’occorrenza e da attuare in prima persona con travestimenti, fughe rocambolesche, bluff rischiosissimi eppure dall’esito certo.

La Casa di Carta 5 si regge quasi interamente sulla figura del criminale nerd, romantico, introverso ma finalmente aperto ai sentimenti e ora capace di ammettere la propria natura, quella di un ladro professionista, quasi chiamato a rispondere ad una chiamata, o meglio a rispettare una “tradizione di famiglia“, come cita il titolo dell’ultimo episodio. Il ruolo del Professore ha riconquistato centralità ammantandosi della veste di supereroe: non è un caso che Alvaro Morte, l’attore che lo ha abilmente e magneticamente interpretato sin dalla prima stagione, abbia detto addio al personaggio definendolo il suo nuovo supereroe preferito dopo essere cresciuto con Batman e Robin. Marquina si carica sulle spalle un intero gruppo di persone che rischia la vita per realizzare il suo sogno, quello di beffare lo Stato appropriandosi della riserva nazionale d’oro della Repubblica, ma con l’intenzione di raggiungere lo scopo senza spargimenti di sangue e senza apparentemente causare un vero danno alla società. Il primo obiettivo è purtroppo fallito, il secondo viene raggiunto dopo una serie di manovre che disegnano un ritratto impietoso della fragilità delle società capitalistiche basate sulla finanziarizzazione dell’economia. Non a caso nella preparazione del suo piano il Professore legge una “storia del Capitalismo“, impara a conoscere i meccanismi della Borsa e del mercato azionario, riesce infine ad usarli per i suoi scopi.

Ma in questo finale de La Casa di Carta 5 il Professore, che ce l’ha sì col sistema finanziario e con la politica corrotta, non vuole assurgere a nuovo Robin Hood, anzi, per la prima volta ammette la sua natura con orgoglio di fronte ad un colonnello Tamayo ormai esasperato dalle sue macchinazioni: si definisce “figlio di ladrone, fratello di ladrone e spero un giorno padre di ladrone“, fino a dichiarare lo scacco matto che gli consente di chiudere la partita a suo favore. Se c’è qualcosa che non ha trovato l’evoluzione che ci si aspettava, a questo proposito, è il coinvolgimento della massa popolare nell’impresa del gruppo: all’inizio della terza stagione era stato introdotto un elemento di meta-tv nel rappresentare sulla scena l’enorme seguito popolare nella società che i personaggi avrebbero avuto nella trama dopo l’impresa della Zecca (un chiaro riferimento al riscontro globale della serie), ma quel sostegno da parte di cittadini, a cui pure un gruppo di ladri sta rubando la riserva aurea dello Stato e quindi la garanzia di solvibilità dei conti pubblici del loro Paese, sembra non trovare la giusta dimensione in questo finale. Perché mai, dopo aver scoperto le conseguenze nefaste sull’economia del furto dei lingotti d’oro della Banca, un’enorme massa popolare avrebbe dovuto continuare a fare il tifo per loro e piangere per la loro presunta sconfitta? Certo, la totale mancanza di credibilità e autorevolezza delle istituzioni di ogni ordine e grado è un ottimo motivo per iscriversi alla Resistenza, ma visto che il Professore non è un Robin Hood contemporaneo e non auspica una redistribuzione di quella ricchezza – ma solo un vantaggio per sé e per la sua banda – l’elemento del consenso tende a non trovare fondamenta credibili. In sostanza il rapporto con la massa, per quanto utile in determinati snodi, viene lasciato un po’ ai margini della trama e sacrificato rispetto alle potenzialità che avrebbe potuto esprimere, nel momento in cui l’impresa criminale viene giustificata col solo desiderio di Marquina di onorare i suoi cari defunti ma soprattutto con la motivazione più vera: il Professore non conosce un altro modo di vivere ed essere felice se non questo.

Ma in questo epilogo de La Casa di Carta 5, per quanto centralissimo, Il Professore non è il solo grande protagonista: tra le maggiori rivelazioni di questi 5 episodi c’è il personaggio di Alicia Sierra, che compreso di essere solo un ingranaggio sacrificabile nella grande macchina istituzionale delle forze dello Stato decide di unirsi al Professore e alla sua banda esterna, riconoscendogli un’umanità che non ha trovato altrove. I primi due episodi di questo Volume 2 sono tutti all’insegna della strana coppia Alicia-Sergio, ricercati in fuga capaci di nascondersi dentro un divano con una neonata al seguito e di scappare col talento dei grandi trasformisti. La loro alleanza si rivela decisiva quando il colpo di scena clamoroso dell’episodio 8 – che regala un’inaspettata centralità ai personaggi di Tatiana e Rafael, rispettivamente moglie e figlio di Berlino – mette il Professore per l’ennesima volta all’angolo. Sarà proprio Sierra, con il preziosissimo aiuto di quello che lei stessa ha ironicamente battezzato Logroño, alias Bejamin, a farlo uscire da quell’impasse prendendo le redini di una caccia all’oro decisiva per il salvataggio del piano.

Ne La Casa di Carta 5 – Volume 2 anche tutti gli altri personaggi hanno un’evoluzione positiva: Palermo rinuncia finalmente a imporre la sua volontà sugli altri, il triangolo Denver-Stoccolma-Manila si conclude nel migliore dei modi, Rio ha modo di piangere la sua Tokyo senza perdere l’ottimismo e la speranza nel futuro, il flashback sulla vita di Berlino si rivelano per niente ininfluenti sul presente. Ma sono senza dubbio Lisbona e Alicia Sierra i due pilastri su cui si regge la capacità del Professore di non arrendersi di fronte agli imprevisti e di trovare in se stesso la forza di ribaltare il tavolo da gioco a suo favore.

La Casa di Carta 5 in questa ultima parte ritrova la brillantezza e la capacità di sorprendere che ne avevano fatto una rivelazione nelle prime due stagioni: non c’è più solo il braccio di ferro con l’autorità, ma torna un idealismo certo controverso ma quantomeno affascinante, l’idea della magia, il potere dell’illusione, combinate con l’abilità dello scacchista e la furbizia del pokerista. Elementi magnetici che rendono l’impresa del Professore qualcosa per cui fare il tifo. E l’incredibile resistenza della sua banda diventa il valore aggiunto da celebrare con l’inno partigiano Bella Ciao (qui in una versione acustica con bonghi improvvisati, che è forse la migliore realizzata finora nella serie).

Senza spoilerare dettagli sul finale de La Casa di Carta 5, si può dire che la scrittura di questo epilogo è stata più che soddisfacente: non mancano momenti caotici in cui la logica va un po’ cercata col lanternino, soprattutto nell’alternanza tra flashback (qui davvero decisivi a differenza di quanto parso in precedenza) e flashforward, né spiegazioni stiracchiate a cui si fatica a dare pieno credito, eppure tutto torna ad avere quantomeno il brio gioioso degli esordi. Trovare una conclusione che mettesse insieme l’esigenza di chiudere la rapina sia dal punto di vista dei ladri sia da quello delle guardie era un’impresa piuttosto difficile: in questi casi il rischio è sempre quello di scontentare tutti, invece si è, incredibilmente (visto il calo drastico di idee e sostanza nella trama delle ultime tre stagioni), riusciti a tenere tutto insieme, a ricondurre passato e presente ad un destino segnato, a fornire un finale soddisfacente per l’intero gruppo e per ciascun protagonista. Se la prima parte di stagione era stata all’insegna della guerriglia, qui c’è anche molto altro: l’arte da prestigiatore del Professore rende questo finale più leggero, coerente e piacevole di quanto ci si potesse aspettare sulla base delle premesse. Un addio genuinamente divertente in moltissimi momenti e perfino commovente in certi aspetti, che è tutto dire per una serie che nasce come puro gioco di evasione tra personaggi un po’ tarantiniani e un po’ almodovariani. Segno che a volte i colpi di coda possono riuscire benissimo.

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