Arancia Meccanica, torna in sala il capolavoro di Kubrick, una lezione di cinema sull’ambiguità dello sguardo

Dal 29 novembre al primo dicembre torna in sala il film tratto dal romanzo di Burgess. Cinquant'anni fa scatenò interminabili polemiche per la rappresentazione della violenza. E ancora oggi resta una visione adulta e perturbante

Arancia Meccanica

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Il ritorno di Arancia Meccanica in sala dal 29 novembre al 1 dicembre, distribuito dalla Warner in versione 4k per celebrare i cinquant’anni dalla prima uscita del film sul finire del 1971, costituisce un’occasione imperdibile per vedere sul grande schermo un’opera intimamente pensata per il grande schermo.

Come ha scritto una volta lo studioso Sandro Bernardi, Kubrick è un autore che “racconta storie per mostrare immagini e non mostra immagini per raccontare storie”. E dunque solo al cinema è possibile apprezzare appieno la complessità del suo approccio eminentemente visivo. In cui la propensione al grande spettacolo avvincente – “una qualità che a mio avviso partecipa della definizione di opera d’arte consiste nel suo essere sempre eccitante e mai deprimente”, dichiarò il regista all’uscita del film – s’accompagna sempre alla densità e all’urgenza “filosofica” delle tematiche affrontate. E dove le immagini puntano sempre a restituire l’ambiguità di senso del reale, sollecitando nello spettatore interrogativi e non offrendo risposte preconfezionate e messaggi tranquillizzanti.

Arancia Meccanica è una trasposizione tutto sommato fedele, sceneggiata in solitaria dallo stesso Kubrick, del romanzo omonimo del 1962 di Anthony Burgess, sorta di favola filosofica d’intento moraleggiante sul tema del libero arbitrio, tesa a dimostrare come, una volta privato della sua capacità di decidere autonomamente tra il bene e il male, l’uomo è ridotto a un automa – la metafora dell’arancia meccanica del titolo, che lo scrittore inglese ricavò da un’espressione dello slang cockney, “as queer as a clockwork orange”, “strano come un’arancia a orologeria”. Di qui la storia di un teppista irricuperabile che viene rieducato dalle istituzioni attraverso un processo sperimentale di condizionamento pavloviano, la cura Ludovico, che gli rende impossibile esprimere l’aggressività. Trasformandolo però non in un uomo buono, ma semplicemente in un burattino non più in grado di scegliere tra giusto e sbagliato.

Nel passaggio dalla pagina al film l’apologo un po’ didattico si trasforma in qualcosa di più enigmatico e insinuante, a partire dalla prima inquadratura del film: un lungo primo piano silenzioso del protagonista, Alex (Malcom McDowell), un occhio vistosamente truccato e l’altro no, che guarda insistentemente, cupamente in macchina, seguito da una lenta carrellata all’indietro che rivela il locale, il Korova Milk Bar con statue-tavolino pop art che ricordano le opere di Allen Jones, in cui insieme ai suoi sodali drughi, dall’aria torpida e assente, si sta ritemprando bevendo latte rinforzato con mescalina prima di lanciarsi nell’usuale notte di scorribande.

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Sin dall’inizio insomma, lo spettatore è portato a far coincidere il suo sguardo con quello del protagonista, un criminale che trova nell’espressione della propria aggressività una sgradevole, per chi la osserva, forma di piacere e gratificazione. “Volevo mostrare – disse Kubrick – come la violenza gli dia gioia e rappresenti il momento più felice della sua vita”. Così quella dentro Arancia Meccanica è un’immersione dentro un universo eccitante le cui fattezze, suoni, colori corrispondono al modo survoltato, drogato (di adrenalina, di sostanze stupefacenti) con cui Alex – il cui nome A-lex, sottolineava Burgess, vuol dire letteralmente “senza legge” – percepisce la realtà.

E il mondo secondo Alex, adattato allo sguardo e alla cultura del protagonista, è sagomato da un immaginario pop, sgargiante e cinematografico. Le sevizie inflitte alla coppia composta dallo scrittore e sua moglie sono condotte, una sequenza divenuta celebre, al ritmo della canzone Singin’ In The Rain, che stilizza le crudeltà in una forma tragicamente ilare. Lo scontro tra i drughi e un’altra banda di teppisti, interrotti mentre sono sul punto di violentare una donna, avviene su di una sorta di palcoscenico cadente, a sottolineare il filtro spettacolarizzante che il protagonista applica costantemente alla realtà. Quando fantastica, Alex si figura come un vampiro coi dentoni finti di un horror a basso costo, o come un centurione romano che frusta Gesù in un cattivo film mitologico hollywoodiano.

Le scenografie rutilanti e sovraccariche di colori; le immagini deformate dall’uso esorbitante del grandangolo; i simboli sessuali che fanno capolino da ogni dove (le opere d’arte contemporanea falliche nella casa della donna dei gatti); lo slang straniante e quasi fanciullesco dei drughi (il nadsat, la neolingua inventata da Burgess in cui s’impastano inglese e russo); la recitazione a tratti abulica, a tratti grottesca dei personaggi secondari; le sequenze parossisticamente accelerate (l’orgia) o riprese in un ralenti che veste la violenza d’una seducente, e allarmante, forma ieratica; l’uso estetizzante delle musiche “alte” di Beethoven e Rossini spesso manipolate attraverso una riscrittura “bassa” in chiave elettronica: ogni aspetto del film è restituito tramite gli occhi di Alex (anche se solo in un’occasione c’è una vera e propria soggettiva), che trasformano una vita miserabile squallida e violenta in un’esperienza, per il protagonista, elettrizzante e gratificante.

La “lezione” data da Alex alla sua banda di drughi, col sottofondo dell’Overture della Gazza Ladra di Rossini

La riabilitazione di un uomo simile non può che passare, in Arancia Meccanica, per una rieducazione dello sguardo. Ed è la celebre, scioccante “Cura Ludovico”, con Alex costretto a guardare, gli occhi sbarrati da pinzette applicate alle palpebre, sequenze raccapriccianti, tra pestaggi – “un pezzo di cinema molto buono, professionale, come quelli fatti a Hollywood”, commenta Alex – , stupri e parate naziste. Visioni che, complice una droga che gli viene somministrata, gli procurano un terribile malessere, destinato a ripetersi ogni volta in cui il protagonista cercherà di esprimere le proprie pulsioni aggressive o impulsi sessuali.

A questo punto Alex, secondo un meccanismo narrativo speculare, si trova a rivivere gli incontri della prima parte del film – un barbone, la sua famiglia (che s’è trovata un “figlio adottivo” più accomodante di lui), i vecchi compagni drughi (che ora sono nelle fila della polizia), lo scrittore di sinistra –, naturalmente tutte ribaltate di segno, perché stavolta è lui a soccombere irrimediabilmente. A quel punto, paradossalmente, l’unica scelta che resta a un uomo cui è stata tolta la capacità di scegliere, è il suicidio. Ma il finale del film riserverà ancora qualche sorpresa.

A Kubrick piaceva molto la struttura simmetrica dell’intreccio, attraverso cui Arancia Meccanica acquisisce davvero l’esemplarità della fiaba e del mito, della favola filosofica volterriana su di un, come scrisse Goffredo Fofi, “Candide-anti-Candide del nostro tempo”.  Il racconto però, a ben guardarlo, non si risolve in un pacificato film a tesi sul libero arbitrio in cui la conclusione, la recuperata capacità di scelta da parte di Alex, possa essere considerata semplicisticamente un “lieto fine”. Kubrick costruisce un pamphlet morale problematico e complesso, a partire proprio dalla scelta di guardare il mondo attraverso gli occhi di Alex.

La cura Ludovico

Lo spettatore è costretto nella prospettiva del protagonista, percependo la sua frenetica gioia nell’esplosione incontrollata, liberatoria degli istinti violenti, e anche solidarizzando con lui per le angherie che subisce da istituzioni – simboleggiate dal ministro dell’interno e dagli scienziati ideatori della cura – la cui voglia di legge e ordine sconfina in forme di controllo totalitario. Alex a un certo punto fa la figura della vittima di un sistema persino più allarmante di lui. E in questa continua sovrapposizione con Alex che rischia di scivolare nell’identificazione, sta allo spettatore operare i dovuti distinguo, per mantenere allo stesso tempo la necessaria distanza emotiva dal protagonista – che in nessun modo può essere confuso con l’“eroe” della storia –  e insieme guardare criticamente alla logica censurabile delle istituzioni.

Istituzioni con cui il protagonista – questo parrebbero suggerire le visioni ancora una volta oniriche e cinematografiche di Alex nel finale –  pare trovare una forma di accomodamento che assomiglia tanto a uno scendere a patti col sistema. Al fondo il racconto disposto da Kubrick a partire dal libro di Burgess ha un andamento disilluso e ambiguo, di un’ambiguità espressa attraverso codici prettamente cinematografici, che richiedono uno spettatore attivo disposto a decrittarli. In questo Arancia Meccanica è davvero un film sul libero arbitrio (e sul libero sguardo): perché sollecita il pubblico a esercitare liberamente le proprie facoltà intellettive ed emotive, al fine di discernere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e dare senso e significato al film, andando oltre l’automatismo dell’identificazione con il protagonista e oltre il confortevole immaginario hollywoodiano con lieto fine incorporato.

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