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Zappa, la vita e l’arte di una personalità enigmatica, inclassificabile come la sua musica

Nelle sale dal 15 al 17 novembre, il documentario di Alex Winter racconta una figura che ha creato uno stile musicale unico, al crocevia tra classica, rock e jazz. Il ritratto non è originalissimo, ma i materiali d’archivio sono straordinari

di Stefano Fedele
15/11/2021
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INTERAZIONI: 610

INTERAZIONI: 610

Zappa

La benemerita Nexo Digital dal 15 al 17 novembre in circa duecento cinema (qui l’elenco) dà agli spettatori italiani la possibilità di confrontarsi con quell’universo magmatico, quel “coacervo di contraddizioni coerente con le sue stesse contraddizioni“, come lo definisce una ex collaboratrice, la musicista Ruth Underwood, che fu Frank Zappa.

Il documentario realizzato da Alex Winter sul grande musicista, compositore, direttore d’orchestra, regista cinematografico (!?), ha un’ambizione enciclopedica, resa tale grazie alla disponibilità della famiglia di accedere all’archivio personale di Zappa. Vediamo l’artista stesso, ritratto in uno dei tanti, suggestivi materiali d’archivio, accompagnarci attraverso i corridoi del suo vasto labirinto casalingo di scaffali, faldoni, nastri, videotape, in cui con maniacalità compulsiva aveva raccolto la sua sterminata produzione.

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Una figura compulsiva e bulimica Frank Zappa, che in una vita purtroppo breve, era nato a Baltimora nel 1940 e morì per un tumore nel 1993, ha manifestato una creatività poliedrica, dando vita a uno stile inclassificabile. Il quale parte dalla fascinazione, bizzarra in un adolescente degli anni Cinquanta, per il compositore contemporaneo Edgar Varèse, e seguendo quell’ispirazione modella un universo in cui la musica classica più eterodossa si sposa col jazz, il rock e il pop commerciale – quelle che lui chiamava “stupid songs” –, tutti rimescolati sulla base di una vocazione allo sberleffo, con brani insieme dall’andatura sbilenca da banda di paese e dalla serissima, ardita complessità di scrittura, che li rende talvolta di difficilissima esecuzione – come nel caso di The Black Page, analizzato nel documentario dal virtuoso della chitarra Steve Vai.

È qui l’inesplicabile contraddittorietà, per la quale sempre la Underwood, alla ricerca di una definizione esemplare di quella musica inimitabile dice semplicemente: “È  Zappa”. Zappa che agli occhi dei benpensanti sembrava un drogato: e invece la sua unica droga era la passione per l’arte vissuta con un approccio workaholic, che lo portava a costringere i musicisti che suonavano con lui, a partire dalle prime Mothers of Invention degli anni Sessanta zeppe di talenti di prim’ordine come Ian Underwood, Jimmy Carl Black, Roy Estrada, a prove interminabili e sfiancanti. Zappa che, a dispetto delle apparenze da freak incosciente, fu il primo musicista a svincolarsi dalla dittatura delle case discografiche, fondando un marchio con cui distribuire i suoi dischi, per salvaguardare la propria indipendenza artistica, interessata non al numero di copie vendute ma alla qualità, alla piena corrispondenza tra intenzioni e risultato. “Non mi preoccupo del successo perché un sacco di volte la gente ama quello che fai per le ragioni sbagliate”, diceva.

Poi c’è anche lo Zappa lucido analista della società in cui vive. Che proprio a proposito delle droghe afferma: “Non ho niente a che farci. Molte delle cose che penso siano sbagliate nella società contemporanea sono il diretto risultato dell’uso di droghe da parte della gente”. È lo stesso artista che, negli anni Ottanta della presidenza conservatrice di Ronald Reagan, si trasforma nel paladino di una crociata per la libertà di pensiero contro un’associazione promossa dalle mogli di alcuni senatori repubblicani, che volevano apporre mortificanti bollini sui dischi per catalogare e censurare le canzoni contenenti oscenità.

È un peccato che il documentario di Alex Winter sorvoli su alcuni passaggi fondamentali della carriera di Zappa. Non vengono nemmeno citati i nomi di dischi capitali come Hot Rats e Uncle Meat, e appaiono troppo fuggevolmente figure rilevanti quali il violinista Jean-Luc Ponty o Captain Beefheart. Va detto che in ogni caso sarebbe stato impossibile contenere in un documentario di sole due ore tutta la multiforme attività di un compositore che ha al suo attivo una discografia sterminata e che ha sempre continuamente spiazzato le attese degli ascoltatori perseguendo unicamente la sua orgogliosa (ma mai seriosa) visione d’artista.

Winter a un certo punto racconta l’interesse giovanile di Zappa per il cinema, mostrando dei preziosissimi filmini casalinghi di finzione risalenti agli anni Cinquanta, girati da Frank ragazzino insieme ai suoi familiari come attori improvvisati. Quella per il montaggio in particolare fu, dice Zappa, una passione totalizzante, che lui esercitava per puro piacere facendo a pezzi e rimontando tutte le pellicole che gli capitavano a tiro. Volendo, è questa una delle chiavi per comprendere il modus operandi zappiano, che realizza composizioni nelle quali affiorano stili musicali eterogenei, trasfigurati però nella riorganizzazione geniale e spiazzante dell’artista, che dà vita a qualcosa di completamente nuovo. Che non è detto piacesse sempre al pubblico, anzi. D’altronde Zappa ne era cosciente: “Molto di quello che facciamo – diceva –  ha l’obiettivo di irritare la gente”.

Tags: documentariofrank zappa

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