Die Hard – Trappola Di Cristallo è il capostipite del blockbuster contemporaneo

Il film che trasformò Bruce Willis in un divo globale è un dispositivo spettacolare a orologeria. Che come il grattacielo in cui è ambientata la vicenda, contiene tanti livelli, storie, stili, generi

Die Hard - Trappola Di Cristallo

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All’uscita nel 1988 Die Hard – Trappola Di Cristallo (in Italia aveva solo il titolo italiano, l’originale fu reintegrato per ragioni di omogeneità con i numerosi sequel) non conquistò esattamente i favori degli addetti ai lavori. “La sceneggiatura è un monumento alla mancanza di logica”, scrisse il critico del Washington Post, aggiungendo: “Ogni dettaglio del film è costruito unicamente per ottenere un effetto sullo spettatore”. Roger Ebert sul Chicago Sun-Times a proposito di Bruce Willis, scrisse che quello era “un altro di quei ruoli da film action in cui la maglietta dell’eroe si strappa al primo rullo, così puoi vedere quanto tempo ha passato in palestra”. Qualcuno ne apprezzò la fattura, definendolo “meraviglioso dal punto di vista ingegneristico”. Ma stringi stringi, è ancora Ebert a parlare, “la strategia del film consiste in un enorme dispiegamento di stunt efficaci ed effetti speciali”.

Insomma, Die Hard fu recepito come una macchina eminentemente spettacolare. Lo è innegabilmente, è anzi la ragione principale del suo successo, che arrivò fragoroso, 140 milioni di dollari d’incasso globali a fronte di costi di poco inferiori ai trenta milioni.  La struttura è quella di un action perfettamente in linea con la sua epoca, dominata dall’inedito divismo metallico, vagamente inumano, dei corpi supermuscolari di Stallone e Schwarzenegger. In più, però, c’è il gigantismo della messinscena, che rende il film diretto dall’esperto John McTiernan (reduce dal successo dell’anno prima di Predator) una pietra miliare nella costruzione del moderno blockbuster, confezionato anche grazie agli espertissimi produttori Lawrence Gordon e Joel Silver (tra i loro exploit, da soli o in coppia, I Guerrieri Della Notte, 48 ore, Commando, Arma Letale)

La mancanza di logica denunciata dai recensori è ingenerosa. In realtà la sceneggiatura scritta da Jeb Stuart e Steven E. de Souza è un calibrato mix di stili e generi. L’action puro si mescola con la commedia, la storia avventurosa del poliziotto eroe solo contro i terroristi corrisponde alla vicenda a sfondo sentimentale dell’uomo che vuole riconquistare la sua donna, con in più pure il buddy movie interrazziale (secondo la ricetta di 48 ore, sempre scritto da de Souza). Tutte queste suggestioni trovano il punto di fusione nella magniloquenza visiva dettata dalla scelta di ambientare tutta la storia in una sola vistosissima location, che nel film prende il nome di Nakatomi Building, sede della corporation giapponese del tycoon Takagi (James Shigeta) – in realtà era la sede, ancora non ultimata, della 20th Century Fox, distributrice del film.

La storia di Die Hard la conoscono tutti: John McClane, classico poliziotto newyorkese duro come il diamante, onesto fino al midollo, testardo e riottoso alle regole, va a passare il Natale a Los Angeles, dove la moglie Holly (Bonnie Bedelia) s’è trasferita con i figli per vivere la sua brillante carriera di top manager. Si presenta alla festa al Nakatomi Building che si trasforma in una tragedia per l’invasione di un sedicente gruppo di terroristi tedeschi guidati dal glaciale Hans Gruber (Alan Rickman, villain straordinario). Loro dicono di voler fare uno scambio di ostaggi per liberare i fratelli rivoluzionari, ma il vero obiettivo sono i 640 milioni di dollari in titoli al portatore custoditi nel caveau. McClane per puro caso sfugge ai criminali: da quel momento, scalzo e in canottiera, diventa il loro incubo, allerta la polizia, fa fuori uno a uno i terroristi, cercando nel frattempo di non rivelare la propria identità, per non mettere in pericolo la moglie, ostaggio di Gruber.

Le prime locandine di Die Hard presentavano unicamente l’immagine del grattacielo. Ed effettivamente si tratta di uno dei personaggi vincenti del film, con la sua interminabile struttura multipiano che, idealmente, può far pensare ai diversi livelli, di volta in volta sempre più difficili, di un videogioco – che qualche anno dopo, puntualmente, fu realizzato. La tromba dell’ascensore, le prese d’aria, i cunicoli, le superfici vetrate che sonoramente si frantumano in migliaia di pezzi: ogni dettaglio dell’edificio si trasforma in un’opportunità narrativa sempre nel segno del gigantismo, dell’esasperazione scenografica, dell’esplosione fragorosa, rilanciando sempre la posta con un effetto di accumulazione della tensione e dello spettacolo che giunge a vette, per l’epoca, insuperate – con qualche debito col genere catastrofico degli anni Settanta alla Inferno Di Cristallo.

L’altro punto di forza è la sarabanda dei personaggi. Su tutti, è chiaro, trionfa Bruce Willis. Il quale in realtà, come quasi sempre capita per queste produzioni ad alto budget, non fu la prima scelta ma arrivò dopo aver interpellato altri attori, da Richard Gere allo stesso Schwarzenegger. Willis apportò un elemento eterodosso al genere di riferimento, perché allora la sua notorietà era principalmente legata alla serie tv Moonlighting, un thriller in salsa di commedia romantica, e al cinema aveva girato un paio di film con un maestro dello stile brillante come Blake Edwards (Appuntamento Al Buio; Intrigo A Hollywood). La sua immagine non era dunque esattamente quella di Rambo.

Ed è anche grazie a lui se gli spettatori dell’epoca recepirono Die Hard nella sua natura ibrida di film d’azione però venato di umorismo fracassone e sopra le righe. John McClane sbuffa e soffre, con un corpo via via sempre più martoriato, eppure non perde mai l’aria sbruffona, con una lingua lunga e appuntita da uomo della strada che spazientisce l’irritante aplomb colto ed europeo dell’antagonista Gruber. Eppure è lo stesso McClane che, a un certo punto, preso dallo sconforto, parlando con Al (Reginald VelJohnson), il poliziotto nero con cui è in contatto via radio, gli chiede di salutare per lui la moglie che sa non vedrà mai più. Una parentesi da melodramma intimista, e un momento di fragilità, che Die Hard può permettersi proprio perché il protagonista si chiama Bruce Willis, con tutto il suo specifico divismo, e non Stallone o Schwarzenegger.

Allo stesso tempo Bruce Willis non fagocita il film. Come hanno sottolineato, in una lettura molto raffinata di Die Hard, i due studiosi Thomas Elsaesser e Warren Buckland, la scansione in tre atti del film può essere osservata anche dal punto di vista della moglie (“il primo atto finisce con l’ammissione di Holly di amare ancora John; nel secondo viene presa in ostaggio da Gruber, che scopre essere la moglie di McClane; il terzo finisce quando si separa dal Rolex, simbolo del suo essere donna in carriera”) e persino del cattivo (“l’ascesa e caduta di Hans segue la stessa scansione in tre atti, la sua trionfale entrata a sorpresa, la scoperta della canaglia nascosta nell’edificio, la sua caduta fatale mentre s’aggrappa al Rolex”), cui dedica anche momenti trionfali – l’ironia del canticchiare l’Inno alla Gioia.

Un altro espediente impiegato a piene mani nel film è il citazionismo, secondo quella dinamica tipicamente postmodernista, sempre più preponderante dopo film come Die Hard, che evidenzia la matura autoconsapevolezza di un cinema che conosce benissimo la propria natura di dispositivo spettacolare inserito in un contesto di opere precedenti con le quali, con logica intertestuale, si pone continuamente in dialogo. Per cui Hans può chiedere al suo antagonista: “Sei solo un altro americano che ha visto troppi film da ragazzo? Un altro orfano di una cultura alla bancarotta che si crede John Wayne? Rambo? Marshal Dillon?”. E McClane gli risponde dicendo che lui si sente più un cowboy alla Roy Rogers, e lo corregge quando cita John Wayne al posto di Gary Cooper.

L’altro fattore importante, lo sottolineano sempre Elsaesser e Buckland, è che Die Hard, anche grazie all’interferenza che si crea nella commistione dei generi, è un film che lavora a diversi livelli e racconta diverse storie. McClane è l’eroe adamantino, l’uomo giusto al momento giusto che sgomina la banda dei cattivi. Ma è anche un marito insicuro, che va a Los Angeles a incontrare una donna che l’ha lasciato per una carriera prestigiosa, e che perciò ha posto in crisi la sua identità di maschio alfa. Die Hard racconta anche una vicenda sentimentale, in cui un uomo fa di tutto – passando attraverso un’epopea incredibilmente dolorosa, quasi fosse una forma di espiazione delle sue colpe – per riconquistare la propria donna. E certo una lettura in chiave di genere del film ha buon gioco nel sottolineare come il lieto fine di Die Hard consista in un ristabilimento degli equilibri da società patriarcale tradizionale. In primo luogo perché in fondo Holly è ridotta a un oggetto – moderatamente – passivo, ostaggio del nemico, in attesa che arrivi il maschio a liberarla. E poi perché l’amore trionfa quando lei, in buona sostanza, accetta di fare un passo indietro rispetto alla carriera – certificato dalla perdita del Rolex.

E c’è di più: McClane può anche essere visto come custode dei valori americani, posto di fronte a alla sfida rappresentata da soggetti inequivocabilmente estranei. Da un lato l’imprenditore Takagi, presentato come un personaggio di indubbia nobiltà e coraggio, e che però comunque costituisce con il suo impero industriale giapponese giunto nel cuore degli Stati Uniti una minaccia per l’economia interna, soprattutto per i “blue collar” della working class cui con tutta evidenza appartiene un McClane. Dall’altro lato ci sono i terroristi europei, rappresentati secondo lo stereotipo dei tedeschi burocraticamente efficienti con un piano che fila come un orologio. Dei criminali, oltretutto, che hanno quell’aria sospetta, altera, colta ed elegante che li fa assomigliare più a banchieri che a banditi qualunque. Non a caso Gruber riconosce immediatamente il completo che indossa Takagi, perché si serve dallo stesso sarto londinese che veste la gente che conta. A quel punto la canottiera sbrindellata di John McClane si trasforma nel simbolo di un’orgogliosa resistenza, della riaffermazione di una cultura e uno stile di vita che sente il peso di una sfida globale che rischia di snaturarne l’identità.