Un Anno Con Salinger, un affettuoso saggio sulla nostalgia e l’amore per la letteratura

Tratto dal romanzo autobiografico di Joanna Lakoff, è la storia d’una giovane scrittrice assunta da un’agenzia letteraria. Che ha per cliente il leggendario Salinger. Garbato, ottimistico, ma non privo di intuizioni. Dall’11 novembre in sala

Un Anno Con Salinger

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Un Anno Con Salinger (My Salinger Year, 2020) è la trasposizione del romanzo omonimo autobiografico di Joanna Lakoff, che ripercorre la sua storia personale di giovane studentessa con ambizioni di scrittrice che, alla metà degli anni Novanta, va a New York in cerca di un lavoro che la metta in contatto col mondo letterario tanto amato.

L’occasione che si presenta alla protagonista (interpretata dalla Margaret Qualley di Maid) è un lavoro all’interno di un’austera agenzia letteraria dallo stile impeccabilmente rétro, con alle pareti le immagini degli autori principali di cui detengono i diritti, da Dylan Thomas a Francis Scott Fitzgerald – guardando la cui immagine Joanna commenta fiduciosa: “Nessun dubbio, dalla loro vicinanza trarrò ispirazione per la mia scrittura”. Tra di essi il più importante – e ingombrante – è senza dubbio J.D. Salinger, l’autore de Il Giovane Holden, all’epoca leggenda vivente prossima agli ottant’anni la cui voce, quando decide di telefonare, mette in subbuglio tutto l’ufficio, a partire dalla direttrice, l’algida Margaret (Sigourney Weaver).

Il compito principale di Joanna è occuparsi della corrispondenza di Salinger. A quasi cinquant’anni dall’uscita del libro, pubblicato nel 1951, sono ancora tantissimi gli ammiratori da ogni parte del globo che gli scrivono, talvolta per esternare la loro gratitudine, talvolta con richieste asfissianti e bizzarre. A tutti Joanna deve rispondere con una distaccata formula standardizzata, spiegando che Salinger non gradisce avere contatti con i lettori. È un compito che una scrittrice non può accettare: anche perché dietro quelle lettere lei si figura volti e caratteri reali, dalle cui parole emerge una richiesta autentica di condivisione che non può essere così sbrigativamente disattesa. Allora, in gran segreto, decide di rispondere in vece dell’autore alle missive, con un tono di comprensione e partecipazione.

Un Anno Con Salinger, presentato in anteprima alla Berlinale 2020 e che solo adesso, dall’11 novembre, esce in sala distribuito da Academy Two, è stato sbrigativamente salutato come un Diavolo Veste Prada in versione letteraria, giocando sulla dinamica del (supposto) contrasto tra la giovane apprendista Joanna e la navigata e scostante Margaret. In realtà il film di Philippe Falardeau (autore del bel Monsieur Lazhar) è abbastanza diverso, intriso di un senso della nostalgia ben lontano dall’ipercinetica contemporaneità ritratta nel film con Meryl Streep. L’agenzia in cui lavora Joanna è uno spazio, come il suo autore di punta, che si è in qualche modo autorecluso, felicemente congelato in un passato affettuosamente custodito, che traspare dalle scenografie, persino dai comportamenti dei personaggi.

L’arrivo di un computer, volutamente di colore nero per sottolinearne l’estraneità, è salutato quasi come una minaccia in un ambiente che si ostina a lavorare con macchine per scrivere e, addirittura, un dittafono. E il film, consegnato a colori caldi e autunnali, restituisce l’elegiaca bellezza del tempo irripetibile di una società letteraria sideralmente distante dall’attuale, in cui campeggiano nomi leggendari come l’Algonquin o l’inaggirabile New Yorker – celebrato ben più rumorosamente da un altro film in uscita questa settimana, The French Dispatch di Wes Anderson (al cui stile ogni tanto Un Anno Con Salinger strizza moderatamente l’occhio).

La figura stessa di Salinger si pone come simbolo contraddittorio di questa nostalgia per un periodo e un’epoca ritenute più profonde, eleganti, forse persino meno compromesse col mercato – come sottolinea Don, il nuovo compagno socialisteggiante di Joanna, “Pubblicare è solo commercio”. Eppure anche Salinger prova a riemergere da suo passato confortevole e isolazionista quando, dopo decenni, pare acconsentire alla richiesta di un minuscolo editore della Virginia di ripubblicare Hapworth, un suo fallimentare, in termini di riscontro dei lettori, racconto uscito sul New Yorker nel 1965 – è una vicenda autentica, anche se poi, in accordo col carattere assai suscettibile dello scrittore, non se ne farà nulla.

In Un Anno Con Salinger il grande autore – che si vede appena, indistinguibile, per pochi istanti – aleggia come una sorta di nume tutelare, facendosi vettore tanto delle emozioni dei lettori quanto delle aspirazioni letterarie di Joanna, cui consiglia con spirito pragmatico di scrivere tutti i giorni, spingendola a non nascondersi dietro la giustificazione del lavoro e a seguire invece le sue autentiche aspirazioni. E le lettere che lei, disattendendo le regole ferree dell’agenzia, scrive agli ammiratori di Salinger, manifestando una vicinanza e un’empatia forse persino inopportune – chi è lei per sostituirsi all’autore e rispondere in sua vece – diventano una forma vicaria attraverso cui sperimentare la sua indifferibile vocazione.

Un Anno Con Salinger rasserena lo spettatore col suo stile garbato, gli interni raffinati, le emozioni ovattate, la parabola ottimistica, con le note di Moon River che affiorano improvvise a ricordarci che la Joanna che va al Waldorf a mangiare una cheesecake da quindici dollari è parente stretta della Holly Golightly di Audrey Hepburn che andava da Tiffany attratta non tanto dai gioielli, ma dalla assai più preziosa eleganza dei modi e dei gesti d’una civiltà in via d’estinzione. Eppure un elemento nel film stona con questa rappresentazione tranquillizzante e nostalgica dell’edenica età dell’oro di un mondo delle lettere d’altri tempi. La New York rarefatta rappresentata, infatti, è integralmente ricreata a Montreal: quasi a instillare il sospetto che l’immagine che abbiamo del passato più che corrispondere al vero costituisca una costruzione ideale, che ci fabbrichiamo per acconciare la realtà ai nostri desideri. E nessun luogo è più adatto a dar voce e forma a ciò cui aspiriamo come la letteratura o, meglio ancora, il sogno a occhi aperti del cinema.